Arte & Artigianato

2 – La scagliola: la tecnica delle fasi iniziali

Le botteghe artigiane hanno sempre cercato di mantenere le proprie formule di preparazione segrete; tuttavia la tecnica di lavorazione non ha subito nel tempo cambiamenti sostanziali.

Fonte: Queste schede tecniche d’antiquariato sono state scritte dall’antiquario Pierdario Santoro, con la collaborazione della moglie Mara Bortolotto, per la rubrica mensile edita sulla rivista “L’Informatore Europeo”. L’originale è corredato da foto e didascalie, qui non riportate.

Le origini della scagliola

Il minerale di gesso si è formato essenzialmente in seguito alla sedimentazione di acque marine, ma ne esiste anche di origine vulcanica. L’uso d’impasti decorativi di gesso è noto fin dall’antichità. Gli egizi e i romani ce ne hanno lasciato numerosi esempi. Plinio descrive nell'”Albarim opus” l’utilizzo della scagliola presso i romani. Il gesso prende il nome dal termine latino gypsum, termine rimasto identico in inglese, in francese gypse, in spagnolo yeso, in tedesco gips.

Come si è già detto, nella scheda precedente, il minerale di base utilizzato nella realizzazione dei lavori di scagliola è la selenite, costituita dalla parte cristallizzata del gesso, allo stato naturale si presenta come cristalli lamellari scagliosi, da cui deriva il nome di scagliola (solfato di calcio idrato CaSO4 2H2O).

Nel tempo le caratteristiche fisiche quali la lucentezza, la trasparenza, il candore perlaceo, l’hanno fatta chiamare in vario modo: pietra di luna, cristallo di gesso, pietra speculare, vetro di olaria, gesso Atlante.

Lastra di selenite
Lastra di selenite

La selenite si presenta a grossi cristalli, con sfaldatura perfetta; al contrario del gesso che può avere differenti forme: lamellari, granulari, prismatiche, scagliose, saccaroidi e compatte. In Italia i banchi e i cristalli di gesso si sono sviluppati negli Appennini durante il Miocene, soprattutto in Romagna e nelle Marche, con presenze anche in Sicilia.

Le principali cave di gesso conosciute e sfruttate fin dall’antichità erano; in Sicilia, in Africa, in Spagna, a Cipro e in Cappadocia e piccole vene presenti anche nella zona di Bologna. La caratteristica della lucentezza e della trasparenza delle scaglie, a lamine di pietra speculare, ne rese possibile l’utilizzo come vetri nelle chiese e palazzi fino al tardo Rinascimento.

Il nome selenite fu dato dai greci proprio per la tonalità lunare che la luce assumeva trasparendo da tali vetrate. Sempre Plinio ci dice che Nerone edificò un intero tempio alla dea Fortuna con blocchi di selenite trasparenti.

In Italia si persero le conoscenze relative alla fabbricazione del gesso da presa fino al tredicesimo secolo. Per la sua fragilità era quasi impossibile utilizzare il gesso in campo artistico e artigianale così come si trovava in natura; per cui fin dall’antichità si misero in atto tecniche di calcinazioni del minerale, per ottenere impasti, che eventualmente arricchiti con colle, fossero resistenti e ne consentissero svariati usi (nella fabbricazione e nella decorazione). Con l’aggiunta di coloranti si arrivò all’imitazione di marmi e pietre dure utilizzati nei lavori d’intarsio o nei rivestimenti architettonici.

Tecnica di lavorazione.

L’impasto.

Le botteghe artigiane hanno sempre cercato di mantenere le proprie ricette e formule di preparazione segrete; tuttavia la tecnica di lavorazione non ha subito nel tempo cambiamenti sostanziali, così come non sono mutate le sostanze che formano la meschia (termine con cui si designavano le misture) i cui componenti essenziali, naturali, di facile reperibilità e preparazione, sono tuttora: gesso, colla e pigmenti colorati. Sono la continua pratica e la costante ricerca, che, però, hanno ottenuto le ricette più valide, i più apprezzati abbinamenti di colori e l’utilizzo dei componenti più stabili e durevoli.

Le pietre di gesso sono dapprima frantumate ed essiccate, poi fatte cuocere in forno a 128 gradi, ottenendo così il solfato di calcio semiidrato, il gesso da presa o da modellatori. Con temperature superiori ai 168 gradi, normalmente intorno ai 200, si ottiene il solfato di calcio anidro solubile, il normale gesso comune o da fabbrica. Trai 500 e i 600 gradi si fabbrica il gesso spento, usato a esempio negli stucchi da falegnameria.

Preparazione dell'impasto di scagliola - Foto di Maurizio Feliziani
Preparazione dell’impasto di scagliola
Foto di Maurizio Feliziani

La selenite è cotta tra i 130 e i 200 gradi, questo trattamento rende friabile il materiale; che è pestato nei mortai fino a ottenerne una polvere fine e impalpabile la scagliola, di colore biancastro con possibili sfumature giallastre o grigiastre, secondo la purezza e la provenienza del minerale.

La polvere così ottenuta, conservata in ambiente asciutto, è pronta per l’utilizzo, dopo un breve periodo di stagionatura. Essa possiede la caratteristica di riassorbire l’acqua, reidratandosi e facendo presa (processo di solidificazione e aderenza alle superfici); amalgamata con altri materiali, formerà l’impasto di scagliola, tale preparazione deve essere fatta solo al momento della messa in opera, il materiale non utilizzato solidifica e deve quindi essere scartato.

La colorazione dell’impasto si fa in due modi. 1) Miscelando il gesso con i pigmenti a secco, campionando, costantemente le tonalità ottenute, amalgamando con la colla e l’acqua piccole parti; perché il colore muta scurendosi, sia con l’aggiunta di acqua e colla, sia dopo l’essiccazione. 2) Aggiungendo, tenendo conto dei dosaggi, al gesso, già mischiato ad acqua e colla, il colore, secco o diluito.

Le colle erano di derivazione animale: di ossa, di pelle, di nervi e di pesce, ottenute per bollitura; oppure di caseina, miscelando formaggio macinato con calce e acqua. L’aggiunta di colla determina l’indurimento e l’impermeabilizzazione del manufatto e rallenta i tempi di presa.

La tecnica della scagliola di Maurizio Feliziani
La tecnica della scagliola- Preparazione e colorazione dell’impasto
Foto di Maurizio Feliziani

Tra i coloranti ricordiamo i più utilizzati:

  • Il cinabro, che è sia un minerale naturale (solfuro di mercurio), sia un prodotto artificiale chiamato vermiglione, con toni rosso scarlatto o rosso-cocciniglia.  
  • Il minio, di colore rosso-arancio, è un prodotto artificiale (ossido di piombo; nel medioevo fu molto usato per i codici, che furono appunto chiamati miniati).
  • Il rosso sinopia o ocra rossa, minerale naturale, colore dal rosso al rosso-bruno.
  • La terra di Siena, usata naturale o bruciata (per arrostimento), variante dal bruno-arancio al marrone scuro.
  • Il bitume prodotto naturale, generalmente usato miscelato ad altri materiali, color bitume.
  • Il nerofumo, ottenuto raccogliendo i fumi della combustione di svariati materiali, stabile e molto coprente.
  • Il nero d’ossa, ottenuto dalla combustione di ossa; quando anticamente era fabbricato bruciando l’avorio prendeva appunto il nome di nero-avorio.
  • Il nero di vite, ottenuto dalla combustione di detta pianta, con sfumature azzurrate.
  • Il blu-lapislazzuli, ottenuto dalla macinazione dell’omonimo minerale; proveniente dall’Afganistan, noto già ai babilonesi, giungeva in occidente attraverso vari scambi e se ne ignorava l’esatta provenienza.
  • L’azzurrite, minerale naturale (carbonato di rame), di colore azzurro intenso, spesso confuso con il precedente.
  • L’indaco, colore azzurro, ricavato da numerose piante, usato in India da tempi antichissimi; fu introdotto in antico sia in Grecia, sia in Egitto, sia a Roma.
  • Il verde-malachite, ottenuto macinando l’omonimo minerale.
  • Il verderame, fabbricato esponendo ai vapori di aceto lastre di rame o alternandole con mosto d’uva, dà colore verde con tonalità azzurre; col tempo si può scurire notevolmente.
  • Terra verde, minerale naturale con scarso potere coprente.
  • L’erba guada, colore giallo, ottenuto per decotto.
  • La gomma gutta, colore giallo, impiegata soprattutto in Oriente.
  • L’orcanetto, estratto dalle radici mediante cottura in olio di lino, colore rosso scarlatto.
  • L’oricello, colore porpora, lichene che, come riportato da Teofrasto, era ottenuto per fermentazione in orina.
  • Lo zafferano, estratto dagli stami, già dal tempo dei romani, color giallo-arancio.
  • Il mallo di noce, un mordente realizzato mediante macerazione in acqua, tinge in bruno.
  • L’alizarina, estratta dal rizoma della robbia, fin dal tempo degli egizi, ebbe molta importanza per le diverse colorazioni ottenibili: rosso-giallastro, rosso-bruno, rosso-arancio e marrone.
  • La Ginestra, colore giallo.
  • Il kermes è di origine animale, ottenuto staccando dalla pianta le femmine di un insetto, il coccus ilicis, e facendole seccare, dà diversi colori secondo i trattamenti: rosso, arancione, violaceo, giallo, nero; fu sostituito solo dopo la scoperta dell’America dalla cocciniglia, ricavata allo stesso modo da insetti di vario tipo originari del Messico (colorante noto agli Aztechi), che fornisce un colore migliore.

Preparazione del telaio

Il telaio ligneo è costituito da un pannello per il fondo, di forma simile e leggermente più grande del manufatto da eseguire, e dai listelli di contorno necessari, che abbiano caratteristiche di spessore, larghezza e lunghezza adeguate all’opera.

Su detto piano di legno era stesa una tela a trama grossa di dimensioni più grandi, sporgente dai bordi. Poi s’inchiodavano al piano, disposti a cornice, i listelli lignei di spessore sufficiente a garantirne la robustezza nelle varie fasi della lavorazione e precedentemente oliati per consentire il successivo distacco del materiale gettato.

Con la prima colata si otteneva il pannello di supporto. La tela aveva la funzione di isolare dal fondo del telaio il getto di malta colata, per renderne, dopo l’asciugatura, più facile la rimozione, la tela inoltre s’imprimeva nell’impasto, rendendone ruvida la superficie e facilitando l’adesione del successivo rivestimento di scagliola a tale pannello di supporto.

L’impasto del pannello di base era generalmente costituito, per piani di piccole dimensioni, da una semplice miscela di gesso a grana più grossa impastata con acqua. Per i lavori di dimensioni maggiori, era necessario, un pannello di fondo più solido e resistente realizzato con una malta composta non solo da gesso, ma impastata anche con calce e sabbia di fiume, amalgamati con acqua e collanti: inoltre, per irrobustire e dare maggior corpo all’impasto, erano aggiunti altri materiali come cocci, paglia o crine di cavallo. Per rendere ancora più solido il pannello spesso si ricorreva a una vera e propria armatura, costituita da canne di palude disposte parallelamente o anche intrecciate a graticcio, che era affogata nell’impasto del fondo.

Tecnica della scagliola . Stesura dell'impasto sulla superficie da lavorare. Foto di Maurizio Feliziani
Tecnica della scagliola. Stesura dell’impasto sulla superficie da lavorare. Foto di Maurizio Feliziani

Dopo la colata si lasciava asciugare per qualche giorno, poi si disarmava il pannello, schiodando i listelli, staccandolo dal fondo e togliendo la tela; e lo si collocava verticalmente, vicino a un muro per consentirne la ventilazione e l’asciugatura, che richiedeva un tempo di almeno due settimane.

Poi si poneva orizzontale e s’inumidiva con acqua e colla, per consentire la migliore adesione del successivo sottile rivestimento di scagliola (chiamato comunemente coperta) e per evitare fessurazioni dovute a una troppo rapida asciugatura.

Questo strato di scagliola con cui si rivestiva il supporto, era di uno spessore che variava da pochi millimetri a quasi un centimetro ed era composto di una mescolanza di gesso, colla e pigmenti colorati. La meschia nera o bianca era stesa con una cazzuola, spatolando l’impasto da un lato all’altro per non creare vuoti o bolle d’aria.

Era preferito un fondo di tonalità scura su cui si distinguono meglio le decorazioni a colori o in bicromia; tuttavia non mancavano fondi di colore chiaro, che richiedevano più studio, per la maggiore difficoltà di ottenere uno stacco tra fondo e decorazione. Ultimata l’asciugatura della coperta, la superficie è levigata con pietra pomice e molta acqua. Per chiudere tutte le porosità residue, si procedeva a una spatolatura con una meschia dello stesso colore del fondo, seguita da altre stuccature e levigature con pomici a grana sempre più fine, fino a quando non si otteneva il risultato voluto.

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