Pulitura dei dipinti: un’antica controversia
La pulitura, come qualsiasi altra operazione del restauro, può essere legata a diversi criteri estetici (oltre che alla capacità dell’operatore) e resta quindi, come ha giustamente sottolineato il Philippot, una «ipotesi critica». Ciò è particolarmente evidente se consideriamo il problema dell’asportazione o della conservazione della patina che fu al centro di una famosa querelle, nota con il nome di cleaning controversy che, sorta poco prima del 1950, per certi aspetti, continua tuttora.
La polemica ebbe origine nel 1947 dall’esposizione di alcuni quadri puliti, o «spuliti», presso i laboratori della «National Gallery» di Londra .
Il Brandi scrisse sul «Burlington Magazin» un violento articolo criticando le spuliture attuate nei laboratori inglesi cui risposero altrettanto polemicamente i restauratori della «National Gallery», ai quali il Brandi replicò nuovamente.
Una seconda fase della cleaning controversy venne aperta da E. Ruhemann nel 1961 cui replicarono il Gombrich, O. Kurz e S. Rees Jones e altri, criticando più o meno concordemente i criteri di pulitura seguiti nei laboratori inglesi.
Il nocciolo della controversia
Vediamo dunque in cosa consistevano questi criteri. I restauratori inglesi attuavano una «pulitura integrale» che rimuoveva anche la patina (da loro ritenuta «sporco») e le velature originali nel tentativo di ridare all’opera l’aspetto che avrebbe dovuto avere appena uscita dalla bottega dell’artista e sostenevano che le loro puliture erano «oggettive», mentre le «puliture parziali» attuate presso l’I.C.R., secondo loro, erano «soggettive», e quindi arbitrarie poiché venivano affidate al gusto del restauratore al quale spettava distinguere lo sporco e le vernici successive dalla patina e dalle velature originali. In realtà l’« oggettivita» delle puliture inglesi consisteva nel «ridurre all’osso» i colori credendo così di riportarli alla brillantezza originaria, e di recuperare ogni minima variazione grafica e cromatica dell’originale.
È evidente però che anche l’«aspetto primigenio» così ottenuto era un ipotesi critica del restauratore ed inoltre questi interventi erano tanto più distruttivi in quanto venivano di solito completati da una foderatura che appiattiva completamente i quadri rendendoli simili a riproduzioni fotografiche .
L’ illusione della pulitura scentifica
Il Brandi, criticando questo tipo di pulitura, nota che è errato (oltre che illusorio) voler ricondurre un opera all’aspetto «originario» poiché, così facendo, si cancella il lasso di tempo intercorso fra la sua attuazione e oggi; ed inoltre con quest’operazione si asportano anche le «velature» e la patina originali.
Secondo il Brandi la patina è quel particolare offuscamento che il tempo sovrappone alla materia dell’opera e va conservata sia per l’istanza storica (poiché, come si è detto, abolirla significherebbe abolire il lasso di tempo che va dal compimento dell’opera al momento attuale), sia per l‘istanza estetica, in quanto costituisce una «sordina» imposta alla materia per impedirle di prevalere sull’immagine.
E. Wind, parlando della meccanizzazione dell’arte, afferma che «un impiego particolarmente distruttivo della meccanizzazione nel campo dell’arte è quello di estenderlo al passato... come nel caso della cosiddetta “pulitura scientifica” dei dipinti. I restauratori coscienziosi sono sempre guidati nel loro lavoro dalla consapevolezza di non poter toccare un dipinto senza interpretarlo. Il pericolo sorge quando si vuole alleggerire la pratica dell’esegesi delegandone la maggior parte ad un solvente chimico… L’ idea che un dipinto del 400 possa essere riportato con sicurezza scientifica al suo pristino stato, come se cinquecento anni d’esistenza non avessero lasciato su di esso traccia alcuna, è un assurdo sia dal punto di vista chimico che dal punto di vista storico. Anche se la storia materiale di un simile oggetto fosse reversibile (e reversibile non è) la visione personale del restauratore non può mai riportarsi all’ottica del 400 se non mediante uno sforzo d’immaginazione storica, soggetto a tutti gli azzardi dell’ingerenza erudita…
Dopo un certo periodo lo stile di una simile ripulitura (che vorrebbe essere assolutamente “oggettivo”), si riconoscerà con la stessa facilità con cui si riconosce quello di una ridipintura. Una volta che (con questo trattamento) il quadro è stato decomposto la pittura viene “onestamente” lasciata così, come una rovina artificiale… e i quadri sottoposti a questo trattamento acquistano un aspetto che si direbbe fatto a macchina con quella lucentezza dura caratteristica della riproduzione meccanica e con colori crudi violentemente giustapposti. La soddisfazione che suscitano in certi paesi quadri ridotti in questo stato può darsi sia dovuta al fatto che il nostro modo di vedere s’è andato sempre più formando sulle riproduzioni a stampa...».
Recentemente il problema della patina è stato ripreso dal Conti il quale, pur condividendo la posizione del Brandi, ne critica le argomentazioni ritenendo che la difesa della patina da un punto di vista puramente teorico, renda la posizione del Brandi altrettanto arbitraria di quella dei restauratori inglesi.
Secondo il Conti invece è proprio partendo dalla materia dell’opera d’arte che si può arrivare ad un oggettiva definizione della patina e trovare quindi gli argomenti che giustificano la sua conservazione. Per il Conti la patina è infatti un alterazione del legante originale che, asciugandosi, tende a salire verso la superficie dando ai colori (specialmente a quelli ad olio) una maggiore profondità e brillantezza.
Le puliture inglesi impoveriscono dunque sia l’aspetto materico, sia la qualità pittorica dei quadri, inoltre il brillante aspetto cromatico e la superficie assolutamente piana che (secondo gli inglesi) dovrebbero facilitare la lettura dell’opera d’arte da parte del grosso pubblico ne travisano in realtà la natura: si tratta dunque di interventi profondamente antidemocratici oltre che anti culturali.
Contro le irresponsabili operazioni di «pulitura integrale», che purtroppo non vengono attuate solo nei laboratori della «National Gallery», è insorto anche il Baldini che ha ripreso e sviluppato una tesi sostenuta dal Gombrich’il quale, già nel 1960, scriveva che «… i restauratori, nel loro difficile e responsabile lavoro, dovrebbero mettersi al corrente non solo della chimica dei pigmenti ma anche della psicologia della percezione… Quel che chiediamo loro non è di riportare i singoli pigmenti al loro colore originario, ma qualcosa di infinitamente più furbo e delicato: di conservare le loro interne relazioni» .
Il Baldini ha messo in luce come i rapporti fra i colori previsti originariamente dall’artista possono alterarsi nel tempo, le velature colorate fossero pressoché sconosciute nel medioevo. A riprova delle sue affermazioni il Brandi riportò numerosi passi di antichi ricettari ed alcune esperienze di restauro effettuate presso l’I.C.R. per cui rimuovendo uniformemente (cioè in modo «oggettivo») un ipotetico strato di sporco, non si ritorna ad avere l’opera nelle condizioni iniziali ma al contrario, si evidenzia questo squilibrio; laddove una pulitura «differenziata» (cioè «critica») può riportare le relazioni fra i pigmenti al loro equilibrio originario.
Non bisogna però confondere la suddetta nozione di patina con quella in vigore nel secolo scorso quando la diffusa predilezione per i quadri di tonalità bruno-dorata fece sì che spesso venissero conservate come «patina» anche le vernici successive inscurite .