Gli stilisti dell’Art Decò
Trionfavano dunque forme rigorose , mobili sorprendenti che si ispiravano all’antico Egitto, come quelli disegnati da Pierre Legrain (sedie intagliate minuziosamente che non sarebbero sfigurate nelle regge dei faraoni) e da Carlo Bugatti che accentuava l’esotismo dei suoi incredibili divani con pergamene, petti di leone e scaglie di madreperla.
Fonte: Alessandra Doratti
Sontuoso, altero, superbamente anacronistico, lo stile dei mobili di Jacques-Emile Ruhlmann suscita reazioni contrastanti, ma mai indifferenza. Il principe degli ebanisti francesi, che dominò la scena dei primi decenni del Novecento, per creare i suoi costosissimi “pezzi” attingeva alle più diverse fonti di ispirazione e non trascurava neppure le sigarette russe che gli suggerivano il prediletto accostamento di colore, nero e oro.
Le forme dei mobili di Ruhlmann in genere sono piuttosto semplici, anche se il loro rigore è poi smentito e al tempo stesso esaltato, dall’impiego dei materiali più pregiati come, l’amaranto, l’ebano di Macossor e il bois di violette. Eppure a dispetto del suo “aureo” isolamento, Ruhlmann seppe anticipare molte delle tendenze che si sarebbero poi affermate nei decenni successivi. Gli anni Venti, che videro il trionfo del Decò, ricorrono frequentemente a materiali insoliti, come l’avorio, la pelle di squalo e quella di serpente, persino la lacca con incrostazioni d’uovo. Jean Dunond, per esempio, amava la lacca e creava famosi paraventi neri, impreziositi da sapienti tocchi argentei, che suggerivano atmosfere orientali in sintonia con i miti dell’epoca.
Trionfavano dunque forme rigorose accanto a mobili sorprendenti che si ispiravano all’antico Egitto, come quelli disegnati da Pierre Legrain (sedie intagliate minuziosamente che non sarebbero sfigurate nelle regge dei faraoni) e da Carlo Bugatti che accentuava l’esotismo dei suoi incredibili divani con pergamene, petti di leone e scaglie di madreperla.
I classici divani in tessuto mutavano d’aspetto e si vestivano con i sinuosi motivi geometrici cari a Ruhlmann e spesso si ispiravano alla pittura dell’avanguardia: ecco allora apparire velluti cubisti e sete costruttiviste, mentre Raoul Dufy proponeva composte corse di cavalli, tipiche dei suoi dipinti, anche nelle stoffe d’arredamento.
Sonia Delavnay amava violenti contrasti di colore e forti geometrie, mentre il più affermato creatore di tappeti dell’epoca, Ivan da Silva Bruhms si ispirava ai manufatti berberi. Alcuni, come Maurice Duprême (direttore del Laboratorio di arti applicate delle faleries Lafayette), mantennero un sottile legame con l’art nouveau nell’insistenza dei temi floreali anche se essi appaiono sempre più spesso “spezzati” da zig zag che ne alterano la fondamentale armonia. In Italia, Fede Cheti sbalordì il pubblico lavorando un tappeto viola col pelo lungo e folto come una pelliccia, prima tappa della sua lunga carriera di innovatrice del tessuto. Dal suo laboratorio sarebbero poi usciti seta e colori con inserti di ciniglia, velluti stampati, rafie realizzate sapientemente.
I classici motivi Decò attingono a elementi naturalistici reinterpretati con gusto sontuoso: fondali marini sui quali si adagiano pigramente pesci e tartarughe vengono realizzati attraverso complesse tecniche di “marquerterie” dove si accostano legni caldi e nerissimi che poggiano su massicce basi dorate. Mobili di stile essenziale sono “cosparsi” di fiorellini, pannelli laccati si popolano di amazzoni lanciate in improbabili scorrerie.
Era l’epoca in cui Eileen Gray, creatrice irlandese che lavorò a lungo in Francia, disegnava per una sorta alla moda una chaise-longue come una canoa in bronzo laccato, sulla quale non era difficile immaginare sdraiata Nefertiti.
Il sole, dai rigidi raggi geometrici, è uno dei temi dominanti e lo si ritrova sugli schienali delle sedie, sui ripiani delle tavole e da lì arriva anche sulle spille, sui portasigarette, sui bottoni e sulle fibbie. Ma quello che rimane il motivo d’ispirazione dominante è la fontana, un’immagine continuamente ricorrente che il Déco priva d’ogni naturalismo e che, proprio per tale motivo viene interpretata come un simbolo di orgogliosa esaltazione del progresso. La spettacolarità e il vitalismo di questo stile preludono al design industriale che già s’intravede nelle sagome rigorose di divani e poltrone.
“In Italia i costruttori di mobili continuano a fornire ai nuovi arricchiti, il falso rinascimento per la sala da pranzo, il falso Luigi XVI per la stanza da letto, il falso impero per la sala da ricevimento: i fabbricanti di mobili a basso prezzo ritornano a quel delizioso stile fantasia che perpetrò i suoi indimenticabili delitti nella seconda metà del secolo scorso…“, così scriveva su La Stampa di Torino il 10 luglio 1911 il critico Enrico Thovez a proposito della “Esposizione internazionale” che celebrava i fasti delle arti applicate nella capitale piemontese. Una decina d’anni dopo, circa, scenario si presenta profondamente cambiato. Nel 1923 si inaugura a Monza la “Mostra internazionale delle arti decorative” della quale poi trae spunto e nasce la famosa “Triennale milanese“, massima vetrina italiana tutt’ora esistente delle nuove idee tutte italiane, pronta, nel secondo dopoguerra, a conquistare il mercato mondiale. Con la Biennale di Monza si ha l’inizio ufficiale di una nuova espressione nell’architettura di interni e nell’ebanisteria che vede i suoi maestri nel romano Duilio Cambellotti, e nei nuovi architetti emergenti che sono Piero Portaluppi, Giovanni Muzio, Giò Ponti, Tommaso Buzzi.
Uno dei massimi ispiratori, oltre ai maestri cubisti, sarà proprio Fortunato Depero che nella sua Casa d’arte, fondata a Rovereto nel 1919, si era dedicato allo studio e alla progettazione di qualsiasi tipo di manufatto, passando dai filati ai mobili intarsiati.
Mentre in Francia Iribe e Grault, in un’estenuante ricerca di originalità di materiali, rivestono i loro mobili di “galiehat” (la sottile pelle del piccolo squaletto detto “sagù”, con la superficie fittamente granulata) in Italia gli ebanisti si sbizzarriscono animando le sobrie forme dei mobili art Déco con intarsi diversi e ispirati e talvolta disegnati dai maggiori pittori e scultori loro contemporanei. Così, Cosorati, Balla, Carrà e Sirani suggeriscono con le loro opere decorazioni e intagli. Allo stesso modo Gigi Chessa disegna in prima persona i pannelli che erano realizzati con minuziosa precisione dagli artigiani-artisti utilizzando legni pregiati locali ed esotici quali: limone, bosso, ebano, acero, tuia, nelle loro tinte naturali o delicatamente colorati.
Tutto gioca ora sul puro sintetico design, sulle proporzioni del mobile e sulla sua linea essenziale; le superfici sono levigate e piatte. Si accantona ogni forma ridondante o ecclettica che sia. I mobili nascono dalla connessione di tre elementi creativi, quelli manifestati dal progettista, dall’intagliatore e dall’intarsiatore. La produzione di pezzi unici e quella di serie hanno una matrice comune, autori omologhi e si esprimono attraverso gli stessi canali. A Milano, già negli anni tra le due guerre, capitale del disegno industriale, nell’ambito dei magazzini “La Rinascente” nasce, con Giò Ponti e Emilio Lancia, la “Domus Nova“, il reparto di arredamento nel quale si propongono mobili economici e “estetici” allo stesso tempo.
I medesimi architetti, affiancati da Tommaso Buzzi, progettano contemporaneamente mobili per la società “Il Labirinto“, che sono arredi destinati a un pubblico piuttosto raffinato ed esigente ma sempre alieno da sfoggi di lusso e stravaganza. Nel 1928 nascono, quasi contemporaneamente, due nuove riviste la “Domus” fondata da Giò Ponti e “La casa bella” di G. Marangoni che aprono la strada verso nuovi orizzonti del verbo architettonico e stimolano la vena creativa del settore delle antidecorative.
Le due riviste saranno le prime anche a registrare il tramonto di un certo modo di intendere la creazione di mobili e il loro inserimento in determinati ambienti. Con la seconda guerra mondiale alle porte, il fascismo che aveva sempre privilegiato lo stile Novecento, dalle linee squadrate e dalle forme massicce, visto come un ritorno all’ordine sia nelle arti visive che applicate, aveva ormai i giorni contati.
Nel dopoguerra sarebbe iniziato il momento del trionfo per il design italiano, un’ondata di successo del quale ancor oggi si sentono gli effetti.