Il gioiello d’imitazione
Nato per scopi pratici e come rivalsa sociale, il gioiello d’imitazione avrà ben presto una sua storia autonoma, più libera e rivelatrice degli usi e costumi rispetto al gioiello autentico, fino a diventare assoluto protagonista della moda e dell’arte
Il Neoclassicismo e la nascita del gioiello fantasia.
La seconda metà del ‘700 fu l’epoca del Grand Tour, ma anche di guerre e rivoluzioni che scossero l’Europa. Le rapine sulle pubbliche vie stavano diventando sempre più comuni e molti facevano fare copie dei loro gioielli, in materiali non preziosi, per portarli con sé nei viaggi.
La passione per il classicismo inoltre, animata dalle scoperte di Ercolano e Pompei, coincise coi moti d’insofferenza per l’artificiosità e la frivolezza che avevano dominato le corti europee, incoraggiando l’esaltazione dello spirito e della virtù, come antidoto agli eccessi della vita mondana.
Accanto alle semplici copie dei gioielli preziosi dunque, se ne diffusero altri di valore sentimentale, contenenti ciocche di capelli intrecciati racchiusi in teche, o recanti messaggi d’amore.
Uno dei grandi protagonisti di questa rivoluzione sociale del gioiello fu Georg Friedrich Strass (1701-1773). Originario di Wolfisheim, vicino a Strasburgo. Strass nel 1724 si trasferì a Parigi e si diede a sperimentare tagli e incastonature lavorando le belle gemme in vetro provenienti dall’Inghilterra e dalla Boemia.
Già attorno al 1670 il londinese George Ravenscroft (1632-1683) aveva sviluppato un tipo di vetro, detto flint, a base di ossido di piombo, la cui durezza era tale da consentirne la sfaccettatura. Strass ne produsse una qualità più resistente e in pochi anni divenne famoso per i suoi gioielli spettacolari, anche se d’imitazione, firmati con una sigla GFS sovrastata da una corona, fino a ricevere la nomina di gioielliere del re Luigi XV nel 1734.
Il successo di Strass fu certo indice di un singolare cambiamento nelle convenzioni sociali: prima del suo successo, i gioielli erano considerati un rivelatore di status sociale, ma ad un tratto, donne delle classi medie potevano indossare gioielli simili a quelli delle dame di alto rango.
Sul finire degli anni ‘80 del XVIII secolo, questi accenni all’eguaglianza sociale presero una drammatica piega con lo scoppio della Rivoluzione Francese. Durante il cosiddetto “periodo del Terrore”, possedere gioielli indicava l’appartenenza all’aristocrazia ed era sufficiente per condannarne il proprietario.
Molti gioielli vennero nascosti, altri ceduti ai rivoluzionari per assicurarsi la fuga o ingraziarsi qualcuno, persino alcuni gioielli della Corona francese vennero venduti, provocando un crollo dei prezzi a livello europeo.
Terminata la Rivoluzione ricomparve l’ostentazione, espressa nel fervore neoclassico degli stili Direttorio e Impero, ma da questo momento in poi gli artigiani non abbandonarono mai la produzione di alternative economiche, apprezzate da un pubblico vastissimo, dando vita ad una assidua ricerca di materiali alternativi ai preziosi, da impiegare nella fabbricazione di gioielli alla moda.
L’uso dei vetri speciali, come il Vauxhall o il vetro opalino, consentiva all’orafo di lavorare con meno limiti, rispetto alla lavorazione delle pietre autentiche, data l’ampia gamma di dimensioni e forme ottenibili.
Con il vetro e l’uso di particolari ossidi si imitarono anche altre pietre: ad esempio incastonando vetro opalescente azzurro su di un foglio in lamina rosa, si poteva sostituire l’opale.
Nella ricerca di un sostituto del diamante, si distinse anche uno dei più grandi industriali inglesi del secolo, Matthew Boulton (1728-1809), che nella sua fabbrica di Soho, a Birmingham, già nel 1770 impiegava più di ottocento operai nella produzione di oggetti in acciaio sfaccettato. L’acciaio, lavorato a grano sfaccettato o a borchia, oppure perforato in modo da formare decorazioni piatte e anelli decorativi per catene, veniva esportato dall’Inghilterra in tutta Europa.
La maggior parte dei gioielli veniva realizzata con borchie sfaccettate disposte secondo vari motivi, ravvicinate per aumentarne lo scintillio, oppure fissate o avvitate su una base d’acciaio, il che fa ipotizzare che si tratti di una tecnica sviluppata in origine più da fabbri che da gioiellieri.
Oltre ai gioielli, erano di gran voga anche accessori come piccole borse in tessuto, finemente ricamate con perline in vetro o acciaio sfaccettato. Boulton impiegò con grande successo anche un altro sostituto del diamante, la marcassite, in genere montata su argento o peltro e spesso abbinata allo smalto in monili costosi, indossati da persone appartenenti a tutti i livelli sociali.
Cinture, bottoni, orecchini bracciali, pendenti e chatelaine erano così belli e alla moda, che nel 1767 la regina Carlotta, moglie di Giorgio III, commissionò a Boulton due importanti catene che richiesero due mesi di lavoro.
All’inizio dell’800 Boulton unì il suo talento a quello di un altro innovativo imprenditore inglese, il ceramista Josiah Wedgwood (1730-1795), celebre per la produzione delle sue lastrine in materiale che imita il diaspro, impiegate in gioielleria per soddisfare l’enorme richiesta di cammei.
Il Jasperware di Wedgwood venne ben presto copiato in porcellana dura dalle fabbriche di Sèvres e Meissen. Nello stesso periodo, James Tassie (1735-1799) di Glasgow e suo nipote William, utilizzarono stampi tratti da famose raccolte antiquarie per realizzare cammei in vetro, mentre anelli e medaglioni con scene dipinte sull’avorio venivano donate come pegni d’amore.
Accanto poi all’impiego di materiali alternativi alle pietre e ai cammei, altri inventori si cimentarono nella ricerca di sostituti di metalli preziosi. Ad uno di questi sperimentatori, l’orologiaio londinese Christopher Pinchbeck (1670-1732), si deve l’invenzione di una lega che porta il suo nome, nata da una combinazione di rame e zinco, con proprietà molto simili all’oro, di aspetto caldo e brunito, che si lavorava facilmente ed era ancora più durevole del metallo prezioso.
Come l’oro poteva essere colorata aggiungendo leghe diverse e si abbinava molto bene agli strass. Per tutto il tardo XVIII secolo fino al 1830 circa, il pinchbeck venne impiegato per creare un numero considerevole di orologi, chatelaine e diademi, tutti contraddistinti da un alto livello di lavorazione, anche se destinati ad una clientela di livello modesto.
Nel 1773, l’invenzione di Pinchbeck era già imitata in Gran Bretagna e in Francia, e in seguito il termine iniziò ad essere usato impropriamente per indicare ogni tipo di metallo dorato.
I gioielli d’imitazione, rivestono particolare interesse perché rivelano i tipi di lavorazione in uso all’epoca: i preziosi venivano infatti continuamente rielaborati e quindi la maggior parte dei pezzi autentici del XVIII secolo non sono pervenuti integri fino ai nostri giorni.
Era invece meno probabile che i gioielli imitati venissero alterati al cambiare delle mode, dato il loro scarso valore.
Nato per scopi pratici e come rivalsa sociale, il gioiello d’imitazione avrà ben presto una sua storia autonoma, più libera e rivelatrice degli usi e costumi rispetto al gioiello autentico, fino a diventare assoluto protagonista della moda e dell’arte