11 – Antiquaria: Antiche abilità Artigiane
Le antiche abilità artigiane raccontate con passione ripercorrendo la storia delle corporazioni delle arti, le tecniche costruttive e decorative che si evolvevano seguendo il mutare del gusto estetico nei secoli.
Fonte: Sergio Salomone collaboratore esterno della ditta Studio Laboratorio di Antichità s.a.s.
L’artigianato fu l’unica forma produttiva dell’età classica, restò fiorente per tutto il medioevo con regole e corporazioni e fu profondamente ridimensionato e modificato con la rivoluzione industriale.
Corporazioni di Arti e Mestieri
Ancora nel ‘500 la conoscenza dei materiali e delle tecniche artigianali era considerata un segreto del mestiere da tramandare oralmente; infatti estranei e stranieri erano esclusi dalle corporazioni di arti e mestieri. Verso la fine del ‘500 vengono compilati alcuni manuali di tecnica metallurgica, vetraria e orafa. Nel seicento e nel settecento anche grazie alla spinta dell’illuminismo vennero pubblicati altri testi specifici.
Dunque verso la fine del medioevo iniziano a nascere le varie corporazioni; gli artigiani che lavorano il legno cominciano ad organizzarsi in gruppi di specialità: ad esempio esistevano con ovvi compiti diversi il bottaio, il fabbricante di archi e frecce, il carpentiere, il falegname, ecc…, i quali frequentavano tirocini diversi e compensi differenziati. Nel progredire dei tempi aumentava la tendenza alla specializzazione e verso la fine del ‘700, cioè all’inizio della rivoluzione industriale, tutte le tecniche per costruire e decorare i mobili erano compito di artigiani diversi; troveremo quindi come già ai nostri giorni: falegnami, ebanisti, seggiolai, tornitori, intagliatori, verniciatori, doratori, laccatori, imbottitori ecc …
Anche a Torino nacque nel 1636 e sopravvisse fino al 1844 una importante corporazione: l’Università dei Minusieri. La semplice denominazione di “Università dei Minusieri” ben presto si arricchisce di altre specifiche e sul frontespizio del “Registro dei Mastri” che si tiene dal 1675, si legge: Università dei Minusieri, Ebanisti, Mastri da carrozze, Montadori d’armi, Botellari et fabricatori di cadreghe di Torino e dei suoi Borghi. Fabbricatori di sedie e costruttori di botti, all’interno dell’Università, diventeranno presto una categoria unica con i minusieri.
Il Falegname
Il falegname o minusiere è genericamente il fabbricatore di mobili; come accennato, in agglomerati produttivi di una certa importanza, esso è affiancato da specialisti che permettono di ottimizzare la produzione sia dal punto di vista della qualità che dei tempi di esecuzione. La stessa cosa non avviene nelle piccole o piccolissime botteghe dove non essendoci una produzione quantitativamente importante, l’unico o i pochissimi addetti accentrano le varie specialità.
Nella seconda metà del ‘400 esistono nell’arredo pochissime tipologie di mobili e tra queste sicuramente il più importante è rappresentato dal cassone. Esso infatti viene usato come credenza, dispensa, guardaroba e per ogni altro oggetto, prezioso e non, che possa in esso essere contenuto.
Proprio in questi anni si sviluppa e consolida una tecnica di lavorazione del mobile, altamente innovativa in confronto al semplice sistema di inchiodare le assi l’una all’altra lungo gli spigoli. Abbiamo già visto in precedenti puntate, come il legno si muova principalmente trasversalmente alle venature, ciò faceva si che i pezzi inchiodati tendessero a spaccarsi. Il nuovo modello di cassone era composto da un telaio o cornice, formato da una serie di listelli che montati verticalmente prendevano il nome di “montanti” e orizzontalmente di “traverse”. All’interno di queste cornici venivano poi inseriti, in apposite scanalature, i pannelli. Gli elementi di questo telaio, erano tenuti insieme da un tipo di giunto già ampiamente usato in passato dagli egizi, i quali, abilissimi artigiani, diversi secoli prima, avevano già inventato molte delle tecniche fondamentali impiegate nel fabbricare e decorare mobili. Il giunto è formato da un incavo rettangolare detto mortasa e da una sporgenza nell’altro elemento del giunto, sagomata in modo da penetrare nell’incavo, detta tenone. Le forme di queste giunzioni possono essere molteplici, ma il principio ispiratore è sempre lo stesso. Sembra che questa importante innovazione venga riscoperta in Italia e da qui il suo uso si diffuse in tutta Europa.
L’uso della colla non viene mai registrato prima della fine del sec.XVII°, quindi per rendere gli incastri robusti e duraturi si usarono chiavi e perni in legno che inseriti in fori appositamente praticati, rendevano stabile la giunzione.
Gli strumenti manuali usati dal falegname nei vari tempi, sono simili a quelli che ancora oggi vengono usati dall’artigiano o dal restauratore. L’unica differenza sostanziale, la si può trovare nella qualità dei metalli, con cui in parte sono composti; qualità oggi migliorata dai progressi tecnici. L’evoluzione degli strumenti di lavorazione passò prima dall’applicazione della forza motrice dell’acqua, per poi utilizzare la macchina a vapore. Oggi sono comuni le numerose attrezzature di ogni tipo, mosse dall’energia elettrica.
L’Ebanista
Il termine “ebanista”, sta ad indicare genericamente, la categoria dei più abili ed esperti tra gli artigiani del mobile. Letteralmente il termine deriva dalla denominazione francese: “menuisier en ébene”; cioè falegname specializzato nella preziosa lavorazione di legni pregiati, tra cui appunto l’ebano. Spesso venne usato anche il termine di stipettaio, altra denominazione per indicare l’artigiano che costruisce mobili di pregio e impiallacciati.
)Ricordo che lo stipo è quel particolare tipo di mobile, a forma di parallelepipedo, destinato ad essere appoggiato su tavoli e cassoni: lo spazio interno, chiuso da ante o ribalte, era organizzato e diviso in numerosi piccoli scomparti, cassettini e sportelli anche segreti e veniva usato per contenere documenti, gioielli, denari, oggetti preziosi e piccole collezioni. Ha origine in Italia all’inizio del ‘500 e chiaramente destinato alle classi ricche e nobili dell’epoca, diventerà con il ‘600 il mobile aulico per eccellenza.
La costruzione di qualunque mobile pregiato, iniziava con l’assemblaggio della struttura, detta anche telaio o carcassa, che in realtà determinava la forma. Questa struttura destinata poi ad essere ricoperta con piallacci, doveva essere solida e ben levigata e tutti i migliori incastri conosciuti, tra cui non ultimo quello a coda di rondine, magistralmente utilizzati. Quando, soprattutto nel ‘700, la struttura doveva prendere una forma a serpentina o bombé, si usava comunemente una tecnica detta a blocchi; cioè venivano tagliati piccoli pezzi di legno che simili a mattoni e in parte già grossolanamente sagomati, venivano legati insieme e poi levigati sino ad ottenere la forma desiderata.
Gli antichi Egizi, i Greci ed i Romani già conoscevano la tecnica di applicare sottili fogli di legno pregiato, su una struttura di legno di minor pregio.
Già l’abbiamo detto in altre occasioni: a seconda del taglio adottato nel sezionare il tronco, si otterranno disegni diversi e innumerevoli possibilità di composizione. I metodi di taglio manuale in uso nel seicento e nel settecento, permettevano l’ottenimento di piallacci o lastroni, con spessori variabili da tre a sei millimetri, quindi grande spreco di materiale. Metodi meccanici moderni, permettono l’ottenimento di piallacci, dello spessore anche di circa 0,5 mm. In genere il foglio di piallaccio, veniva immerso nell’acqua per diverse ore e successivamente pressato tra due pannelli, onde ottenere in due o tre giorni, un foglio perfettamente asciutto e piatto. Sia la base che la lastronatura, veniva preparata con una pialla particolare, con ferro a denti, che eliminava le irregolarità, ma nello stesso tempo, rendendo ruvide le parti, aumentava la superficie di adesione della colla. Gli eccessi di colla e le bolle d’aria, venivano eliminati lavorando la superficie, con un apposito martello da impiallacciatura; sulle superfici curve, venivano sovente usati sacchi di sabbia, per far meglio aderire i piallacci, fino ad asciugatura della colla. Alla fine a colla completamente asciutta venivano rifiniti gli spessori.
Intarsio e marqueterie
Altro compito dell’ebanista è comporre gli intarsi e le marqueterie.
L’intarsio è una tecnica molto antica e viene ripresa in Italia già dal ‘400. Consiste nell’accostare ed inserire in una superficie lignea, precedentemente incavata a tale scopo, una serie di tasselli lignei o di altro materiale, appositamente sagomati e di essenza o colore diversi, predisposti in modo tale da riprodurre un disegno o una decorazione.
L’intarsio poteva essere a secco, nel caso le varie tessere fossero accostate con il semplice incastro; diversamente si ricorreva ad un mastice per fissarle. Oltre a sfruttare le colorazioni naturali dei vari legni, venivano spesso usati altri materiali, come l’avorio e la madreperla. In alcuni casi, per sveltire il lavoro, invece di inserire nell’incavo, appositamente creato, i vari tasselli, lo si riempiva semplicemente con stucco; a verniciatura eseguita l’effetto decorativo era pressoché lo stesso. Altre volte l’intarsio, veniva simulato, semplicemente, con una decorazione a pennello in colore contrastante. L’effetto era comunque assicurato.
Come abbiamo visto l’intarsio è eseguito su supporto in massello; si parlerà invece di marqueterie, quando il motivo decorativo, viene composto da una lastronatura fatta di legni diversi, a volte accostati con altri materiali, quali l’avorio, la tartaruga, il peltro, l’ottone, che si compongono tra loro come un puzzle. Riuniti i vari piallacci, con colori ed essenze diverse, che dovevano venire utilizzati e formato così un unico pacchetto, si procedeva al taglio contemporaneo, di tutti gli strati, secondo il disegno precostituito. A taglio eseguito e separati i vari strati, si procedeva all’assemblaggio accostando materiali e colori desiderati, appunto come si esegue un puzzle. Costituito il disegno, si fissavano per comodità i vari elementi su un foglio di carta e il tutto veniva poi incollato sulla struttura del mobile. In alcuni casi, gli artigiani ebanisti per ampliare la varietà delle colorazioni, usavano legni tinti.
La tornitura
La tecnica di far ruotare un pezzo di legno su struttura apposita e di comporre la forma desiderata, utilizzando un utensile da taglio che agisce sullo stesso, è un sistema già usato dai soliti antichi Egizi e successivamente da Greci e Romani. Si hanno notizie che a Colonia, i tornitori già dal 1180, avevano costituito una propria corporazione, addirittura separata da quella degli altri artigiani del legno, cosa questa che sottolinea l’importanza del loro operato.
Una delle forme più semplici e primitive è il cosiddetto tornio a pertica che funzionava grazie all’elasticità di un lungo palo. Il pezzo da tornire, veniva fissato su una semplice incastellatura, munita di punta e contropunta, entro cui lo stesso veniva imprigionato; la punta imprimeva il movimento di rotazione, tramite una corda avvolta sulla stessa e collegata da un lato al palo e dall’altro ad un pedale. Schiacciando il pedale e portando quindi in tensione la corda, essa faceva ruotare il pezzo verso l’operatore; nel momento in cui si rilasciava il pedale, la corda, richiamata dall’elasticità del palo, faceva ruotare il pezzo in senso opposto. L’evoluzione, sarà l’applicazione di una ruota che da principio un aiutante girava manualmente e successivamente verrà mossa da meccanismo a pedale o da motore.
Il sedile e la tecnica di costruzione
Nel medioevo esistono vari tipi di sedile che verranno poi mano a mano evolvendosi. Il sedile con braccioli, era riservata al capofamiglia o agli ospiti d’onore; le persone di ceto inferiore, sedevano su panche o cassoni e sgabelli.
La tecnica di costruzione, non fa altro che applicare le conoscenze che già si hanno nel campo della falegnameria che come sempre puntualmente ritroviamo nei manufatti giunti a noi dal periodo egizio; tecniche dimenticate, ma riscoperte con l’evolvere del periodo medioevale. Quindi verranno usati al meglio i vari incastri conosciuti, l’utilizzo del tornio ove occorra e l’intaglio e altro per la decorazione e finitura.
Una notevole evoluzione della tecnica, avviene con la scoperta della possibilità, di curvare il legno. In un primo momento, si usarono alberi giovani e di taglio fresco, sfruttando la loro elasticità, li si fissava in posizioni predeterminate e cosi si lasciavano seccare. In seguito si scoprì che anche il legno di alberi maturi o stagionato poteva essere curvato, dopo averlo fatto bollire o trattato con il vapore. Questa tecnica, oltre a consentire un minor spreco di materiale, permette di costruire un pezzo più resistente, perché la venatura corre nel senso della curvatura.
La sedia è un mobile molto complesso, soprattutto per le resistenze meccaniche che deve sopportare, derivanti dal normale uso quotidiano. Nella costruzione di serie, dalla fine del ‘700, diventa frutto di opera collettiva: il tornitore per le parti tornite, un operaio per segare e sagomare, altro per la curvatura, l’intagliatore, il montatore per assemblare ed infine il verniciatore. Accanto a questa alta specializzazione, si formarono e sopravvissero per un certo tempo, artigiani che possiamo definire nomadi, i quali accontentandosi di vitto, alloggio e un piccolo compenso, giravano tra i vari insediamenti rurali, con a seguito pochi attrezzi che compensati da grande abilità manuale, permettevano di produrre a domicilio, sedie semplici, robuste, comode e gradevoli.
L’Intaglio
Tra le tecniche più antiche e diffuse nella lavorazione del legno, sicuramente si deve annoverare l’intaglio. Esso si ottiene scavando la superficie con scalpello e sgorbia, seguendo un disegno prestabilito. I procedimenti partono dai più semplici, consistenti ad esempio in primitive incisioni sulla superficie, magari accompagnate da una serie di disegni ripetitivi, impressi con appositi punzoni, fino ad arrivare a vero e proprio intaglio scultoreo, assai più complesso, dove si potrà facilmente parlare come nella scultura, di bassorilievo, altorilievo e intaglio a tutto tondo. Come dimenticare la spendida arte scultorea di Andrea Fantoni, di Giuseppe Bonzanigo, attivo a Torino, o quella del veneto Andrea Brustolon.
Quasi tutti i legni, usati normalmente nella lavorazione dei mobili, possono essere usati per l’intaglio, erano comunque preferiti quelli con venatura più compatta. Usatissimo in Italia fu il noce. I pezzi che dovevano essere laccati o dorati, venivano preferibilmente eseguiti con legni teneri quali pioppo, cirmolo, abete. Dal 1850, si iniziano a costruire macchine, in grado di produrre meccanicamente l’intaglio. Tale automazione, negli anni enormemente migliorata, permette oggi di eseguire, nella lavorazione di serie, lavori perfetti. L’intaglio manuale, sopravvive nella produzione artistica e nelle varie fasi del restauro, dove la riproduzione di un solo particolare, fa economicamente preferire la manualità.
La laccatura
Introducendo il tema sulla laccatura del mobile, non si può non fare riferimento alle lacche orientali. L’interesse per la lacca orientale, si sviluppa in Europa soprattutto nel ‘600; si nota infatti che negli inventari dei mobili delle corti europee, iniziano a venir menzionati, sempre con maggiore frequenza, mobili e oggetti in lacca. Spesso troviamo pannelli di paraventi, importati dall’oriente, smontati e applicati alle pareti, altri pannelli più piccoli o tagliati, venivano applicati su mobili costruiti in Europa; cofani e piccoli oggetti venivano appoggiati su tavoli riccamente scolpiti.
Col passare del tempo, si arrivò a richiedere agli artisti cinesi e giapponesi, pannelli con forme e dimensioni prestabilite.
Da una pianta originaria della Cina, la “rhus vernicifera”, si ricava una resina che esposta all’aria modifica la propria composizione molecolare; questa resina è la materia prima per la fabbricazione della lacca orientale che doveva essere conservata in un recipiente di ceramica opaco, essendo la stessa fotosensibile. Il procedimento di laccatura era estremamente lungo e laborioso; un buon prodotto veniva portato a compimento in anni. Il laboratorio doveva essere in penombra, fresco e umido, totalmente privo di polvere. Tra una mano e l’altra di vernice, delle numerosissime che venivano applicate, bisognava procedere ad una accurata pomiciatura. Le ultime mani venivano addirittura stese su una chiatta, in mezzo ad un lago.
La laccatura era talmente spessa e robusta che si poteva decorarla con dipinti, incisioni, intagli profondi, intarsi ecc… Una mano leggera di lacca trasparente proteggeva poi alla fine le decorazioni.
La crescita di interesse, il continuo aumento dei prezzi e il contemporaneo scadimento di qualità delle lacche importate, stimolarono artigiani europei alla realizzazione in proprio, di manufatti in lacca. Le prime imitazioni eseguite soprattutto nel ‘700, erano a base di gommalacca; per lungo tempo non si conobbe l’ingrediente principale usato dai Cinesi. D’altronde era impossibile coltivare in Europa la rhus-vernicifera ed era impensabile, con i mezzi dell’epoca, trasportare una materia prima che si sarebbe deteriorata durante il viaggio.
Ricette e istruzioni ci pervengono dai vari trattati pubblicati sull’argomento tra Sei e Settecento: apprendiamo ad esempio in Francia, l’uso di una vernice contenente aglio, o come a Venezia e Genova si preparassero lacche a base di sandracca, una resina estratta da alcune cupressacee.
Fu solo però all’inizio del XX secolo, quando in Europa aprirono le prime botteghe di laccatura, in cui la maggior parte di operatori era costituita da Cinesi e Giapponesi, che si poterono scoprire tutte le più recondite sfumature di questa antica arte.
Il mobile dipinto
Attenta menzione merita la pittura usata a scopo decorativo sul mobile e a volte eseguita da grandi artisti. Dal quattrocento, quando il cassone da semplice elemento funzionale dell’arredo, divenne mano a mano oggetto elegante e fastoso, si iniziò ad utilizzare, accanto ad intarsio e intaglio, la pittura a tempera. Col passare del tempo e con le evoluzioni delle tecniche pittoriche si passò ad utilizzare anche altri sistemi, tra cui la conosciutissima pittura ad olio. La decorazione pittorica poteva interessare solo una parte del manufatto, ma più spesso la pigmentazione, variamente colorata, interessava tutto il corpo del mobile. Vi ricordo quanto citato prima e cioè la laccatura su mobili genovesi e veneziani del settecento e gli stessi veneziani cosiddetti di arte povera, dove sulla superficie del mobile, precedentemente dipinta, venivano incollate delle stampine in carta che dovevano simulare la decorazione dipinta. Spesso su mobili costruiti con legni teneri, veniva dipinta una decorazione a finto marmo o a finto legno e spesso su manufatti destinati ad arredi rustici, il disegno decorativo veniva riprodotto per mezzo di uno stampino carico di pigmento.
La doratura del mobile
Sovente alla pittura si accoppiava la doratura. Questa tecnica viene usata da oltre 4.000 anni e fin dalle origini l’oro viene utilizzato in lamine sottilissime. Dal seicento l’uso della doratura a scopo decorativo, si applica su larga scala e quasi sistematicamente vengono dorate tutte le parti scolpite. Essenzialmente due erano i metodi usati per far aderire la sottilissima foglia d’oro al supporto ligneo: il sistema cosiddetto ad olio ed il sistema ad acqua.
La doratura ad acqua (detta anche doratura a guazzo n.d.r.), più complessa e delicata, era quella che dava risultati più interessanti, infatti la superficie rivestita, poteva successivamente essere resa lucida, mediante sfregamento con un dente di cane o una pietra d’agata. Consisteva nel preparare accuratamente le superfici da dorare, con strati successivi di gesso mescolati a colla di pelle di coniglio; dopo averla accuratamente levigata, la base in gesso veniva trattata con un mordente a base di argilla rossa o bolo, mista ad albume o altre sostanze leganti ed acqua calda. Ad essicazione avvenuta , la fase successiva, consisteva nel prendere l’oro con un apposito pennello di zibellino, precedentemente caricato di elettricità statica con strofinio sulla guancia o tra i capelli, e depositarlo sul cosiddetto cuscino che era costituito da una tavoletta di legno leggermente imbottita e ricoperta da pelle di vitello ruvida. Facendo attenzione alle correnti d’aria che potevano facilmente far volare via la sottilissima foglia, l’operatore procedeva a tagliarla con l’apposito coltello, nella misura desiderata. Sfruttando ancora le proprietà elettrostatiche del pennello, prelevava la foglia e la depositava sul supporto ligneo precedentemente inumidito con acqua, da cui il nome di doratura ad acqua o a guazzo.
Per la doratura ad olio (detta su missione) si preparava un mordente composto di olio di lino cotto al sole fino alla solidificazione, mescolato con ocra gialla, terra di siena ed un pò di olio di lino; questa pasta cremosa si applicava in strato sottile sulla preparazione a gesso e quando, in fase di asciugatura si presentava ancora leggermente appiccicosa veniva applicata la foglia d’oro con le modalità sopradescritte. Questo metodo si usava solo sulle parti che dovevano rimanere opache, in quanto le stesse non potevano essere successivamente lucidate, ma era comunque adattissimo per i lavori che dovevano resistere alle intemperie e permette di dorare con facilità i metalli (griglie, cancellate, ecc…). Con analoghe modalità venivano utilizzate le foglie d’argento. Dal secolo XIX° vengono prodotte foglie d’oro e d’argento imitazione; le prime composte da ottone e zinco, le seconde da alluminio.
Pressoché inalterate sono rimaste le modalità di esecuzione della doratura a foglia nei vari tempi. L’unica innovazione consiste nel trovare già pronte in commercio le preparazioni a gesso, i boli e le missioni che anche se non rispettano fedelmente le formulazioni antiche, producono analoghi risultati.
Particolare menzione va fatta per la cosiddetta doratura a mecca. E’ un tipo economico di doratura che usa anzichè la foglia d’oro, quella d’argento successivamente velata da una vernice, detta appunto mecca, a base di lacca trasparente e di tonalità giallo oro.
Arte di Colorire il legno
L’arte di colorire il legno si ritiene abbia origini lontane, infatti si pensa fosse normalmente utilizzata da Egiziani e Persiani. Per avere le prime notizie certe bisogna però giungere all’epoca greco-romana; da numerosi testi di antichi scrittori ci si può rendere conto dell’importanza che veniva attribuita alla coloritura del legno. La sempre maggiore richiesta di legnami pregiati da parte dell’opulenta classe, contemporanea di Cicerone, che amava abbellire la propria dimora con mobili sfarzosi, fece si che gli ebanisti romani, stimolati da facili guadagni, gabbellassero con l’uso della tintura, un legno comune per legno pregiato.
La tecnica di colorire il legno viene riscoperta nel ‘600. Per poter imitare con la coloritura i legni più preziosi, si ricorse a svariate sostanze e ad ingegnosi procedimenti. Prima di tutto si ottennero coloranti dallo stesso regno vegetale mediante bolliture ed immersioni in acqua. Non si sdegnò però di usare sostanze chimiche quali il verderame, l’allume, l’acido solforico, il cloruro d’ammonio, il solfato di ferro. Continuamente alla ricerca di nuove sostanze tingenti utilizzate in mille e più composizioni e modalità, continuamente affinate dall’uso quotidiano e dai continui progressi tecnico-scientifici, fino ad arrivare ai nostri giorni.
La lucidatura del mobile
Sia i mobili in legno massello che quelli impiallacciati di solito venivano sottoposti a lucidatura. Il procedimento imponeva innanzitutto una accurata levigatura, quindi dopo, se del caso, aver provveduto alla tinteggiatura, la superficie era pronta per la lucidatura che oltre a proteggere il legno, avrebbe dato splendore all’insieme valorizzando il disegno naturale delle venature. Nel cinquecento la sostanza normalmente usata era la cera d’api che veniva utilizzata allo stato solido, oppure liquido per riscaldamento o per diluizione in essenza di trementina. Spalmata in strato sottile veniva lasciata riposare ed essiccare, per essere successivamente strofinata con un panno ruvido o una spazzola e poi panni più fini, fino a raggiungere la lucentezza ottimale. Accanto alla cera d’api si usavano anche resine naturali sciolte in olio o spirito e in trementina, a seconda della disponibilità entravano a far parte della verniciatura l’olio di lino, di oliva, di noce, di ginepro, di pioppo variamente composti con altre sostanze tipo il tripolo, finissima farina fossile.
Nel settecento in Francia si sviluppa un metodo di verniciatura completamente nuovo per la cultura occidentale; la nuova tecnica detta appunto alla francese utilizza fogli di gommalacca sciolti nello spirito. La gommalacca è un prodotto derivato dalla secrezione di un gruppo di insetti della famiglia dei Coccidi presente su alcune piante (acacia, butea, ecc…) dell’Asia meridionale (Birmania, Indocina) e isole adiacenti. Una volta raccolta, la lacca viene fusa, lavata, essiccata e infine filtrata a caldo e immessa in commercio sotto forma di grani o scaglie sottili. La sua preparazione per l’utilizzo è cosa assai semplice: si ottiene facendo sciogliere la gommalacca in alcool etilico a 95°. Questo sistema di verniciatura, applicato razionalmente, conferisce sempre agli oggetti uno spiccato splendore, una lucentezza del tutto particolare e nello stesso tempo promuove la formazione di una pellicola protettiva abbastanza resistente all’usura e quindi di ottima durata. Applicato ai mobili, ne aumenta assai il valore ed il pregio artistico facendo spiccare e ravvivando la ricchezza delle tinte ed il grazioso effetto creato dalla variegatura della venatura dei legni.
Dopo, ma non è obbligatorio, aver provveduto alla stenditura su legno grezzo di uno strato di olio per mettere maggiormente in risalto la venatura, l’applicazione viene eseguita tramite il cosiddetto stoppino, un tampone di lana lavorata imbevuto di soluzione e avvolto in un involucro di lino o cotone. L’operatore usando poche quantità di vernice per volta, lavora curando di spalmare la vernice in modo uniforme, con movimenti ora diritti, ora spiraliformi, ora a otto. Ogni tanto lubrifica leggermente la superfice del tampone con olio per aumentarne la scorrevolezza.
Gli inglesi solitamente seguivano un metodo di verniciatura che differiva parzialmente da quello classico messo a punto in Francia ed universalmente adottato. Una delle differenze principali consiste nella preparazione della vernice che una volta sciolta in alcool, veniva separata per decantazione in due soluzioni. La parte superiore fluida e trasparente, la cosiddetta vernice filtrata inglese e la parte inferiore densa e ricca di sostanze nobili. Prima dell’applicazione veniva disteso sulla superficie uno strato ben caldo di colla da falegname che poteva essere trasparente o colorata a seconda dei risultati che si volevano ottenere. Dopo codesta incollatura e successiva pomiciatura si procedeva all’applicazione della vernice con il metodo usato in Francia, solo che i primi strati venivano distesi utilizzando la vernice più ricca e densa, mentre per gli strati finali si utilizzava quella limpida e fluida. Il metodo all’inglese, conduce a risultati estetici di gran lunga inferiori rispetto a quello usuale, infatti i mobili inglesi risultano spesso troppo carichi di vernice, con aspetto superficiale velato, poco trasparente. Unico pregio e quello di una maggiore resistenza ai fattori climatici; probabilmente gli artigiani inglesi sono stati indotti alla ricerca di tale metodo, stimolati appunto dal clima fortemente umido di quelle zone.
Il tappezziere
Dopo aver accortamente verniciato sgabelli, sedie, divani, poltrone, tali oggetti passano inevitabilmente nelle mani dell’imbottitore o tappezziere che applicando la sua arte, li renderà comodi ed eleganti.
Nel medioevo i sedili quando erano coperti con stoffe, le stesse erano semplicemente appoggiate e drappeggiate, altre volte volte inchiodate all’intelaiatura. Per render meno scomodi panche e sgabelli sovente li si copriva con cuscini. Più avanti cominciano ad apparire in Italia e Spagna i primi sedili con imbottiture fisse o con fodere trapuntate. Ma solo dal ‘600 l’uso dell’imbottitura si afferma pienamente e il tessuto prende sempre più importanza decorativa; comincia a diventare importante accordare il tessuto di sedie e poltrone con i tendaggi del letto e con i colori dell’ambiente. Circa dal 1640 si prende anche l’abitudine di utilizzare sedili e rivestimenti in cuoio. Desidero sottolineare che per ora si parla di imbottiture non elastiche e cioè senza molle, in cui la parte interna era spesso costituita da paglia o crine e delle piume.
I tessuti più importanti e preziosi venivano montati in modo da poter essere facilmente staccati e riposti quando non usati.
Nella seconda metà del settecento aumentano, come abbiamo visto per le altre discipline, le pubblicazioni contenenti i principi fondamentali dell’arte del tappezziere, in cui ci si soffermava, tra l’altro, sul modo in cui disporre le borchie. Sempre dalla metà di tale secolo nasce in Francia la tendenza al sostituire a seconda delle stagioni, le fodere. A questo scopo si fabbricarono sedili, schienali e braccioli staccabili.
Nel corso del ‘700 vengono inventate praticamente tutte le tecniche poi utilizzate dai tappezzieri fino ai giorni nostri. Unica vera successiva novità fu l’introduzione dell’imbottitura elastica, mediante l’utilizzo delle molle. Il primo brevetto per una poltrona a molle è del 1826 e velocemente tale tecnica si diffuse in tutta Europa.