Arte e Restauro del Marmo
Marmi e pietre del Veneto
Lasciamo i grandi maestri veneti per rimanere nel quotidiano e per tornare alla lavorazione artigianale del marmo e della pietra nella nostra regione. Non possiamo -infatti- – dimenticare il grande impulso dato dalla Repubblica Veneta a questo settore. Sorta su isole di laguna, prive di cave di pietra, Venezia fu costretta a regolamentare, favorire e proteggere l’approvvigionamento di pietra da costruzione e da ornamentazione. Le rive, le calli, i campi, la stessa Piazza San Marco erano e sono pavimentate con la trachite dei Colli Euganei: i massi di trachite semilavorati (detti masegne) giungevano a Venezia su capaci imbarcazioni (detti burci) che scendevano lungo il Naviglio del Brenta e lungo il Canale di Pontelongo. La trachite e il calcare bianco d Istria erano impiegati anche in edilizia, nella costruzione dei forti e delle difese a mare della laguna.
Portale di Santa Maria Gloriosa dei Frari, arte gotico-fiorita veneziana, metà del XV secolo. | Bifore e polifore in pietra d’Istria della Casa degli Olzignati (Pietro Lombardo, Padova,1446 | Bassorilievo in alabastro giallognolo, maestro veneto del XIV secolo |
Per le pietre ornamentali l’approvvigionamento avveniva, sempre attraverso la navigazione interna, dalla cave del Vicentino, del Friuli e dell’Istria. La pietra d Istria era ed è molto lavorabile (anche se molto deteriorabile) e perciò particolarmente adatta alla fabbricazione di pinnacoli, doccioni, cornici di porte e finestre e vere da pozzo, trifore e altri elementi architettonici. Il marmo rosso di Verona e il bardiglio di Bergamo, assieme a marmi fatti venire dall’Oriente, soddisfacevano le esigenze dei più ricchi nell’ornamentazione dei palazzi.
Nell’occasione di assunzioni di cariche pubbliche, come quelle di Procuratore di San Marco, come segno tangibile di prestigio, vi era l’usanza di coprire con marmi policromi i palazzi, precedentemente ricoperti di intonaco.
Le autorità dovettero, tuttavia dare un giro di vite all’usanza (o alla mania) di ricoprire i palazzi con lastre di marmo policromo per due motivi: il primo era inserito in una più vasta esigenza di reprimere i lussi eccessivi (tentativo non riuscito perché i veneziani seppero sempre eludere le leggi. |
suntuarie e i decreti dei Provveditori alle pompe) il secondo perché un eccesso di peso sui muri perimetrali comprometteva spesso la statica dell’edificio con grave pericolo per gli occupanti della casa e di tutti i vicini.
Come per tutti gli artigiani, anche i lapicidi avevano, nelle città venete, una loro caratteristica collocazione urbana vicina ai luoghi di attracco della navigazione fluviale, una specifica confraternita ed un loro santo protettore: Sant Eligio.
Comunque i lapicidi, o maestri priaroli, fossero scultori (intaiadori) o semplici scalpellini, chiamati in veneto anche tagiapiera o taiapria, erano tenuti in gran conto per la loro abilità, così come erano ricercati i bravi terrazzieri, gli artigiani esperti nella costruzione e nella manutenzione dei pavimenti alla veneziana.
Il terrazzo veneziano e il mosaico
Il terrazzo veneziano è considerato da molti il parente povero del mosaico, un fenomeno dovuto all’imbarbarimento, alla decadenza di una tecnica musiva non più praticata correttamente. In realtà il mosaico pavimentale, quello che ubbidisce ad un disegno geometrico o a elementi figurativi, e il seminato , cioè le libere e casuali composizioni di scaglie di marmo, convivono fin dall’antichità e anzi il terrazzo alla veneziana o battuto, , è forse il progenitore del mosaico.
asporto del corpo di San Marco, tra i più antichi mosaici marciani, 1260-70. |
Mosaico ravennate del VI sec. d.C. |
I romani designavano con l’espressione opus signinum il pavimento costituito da coccio pesto e calce; quando venivano seminati pezzetti di marmo immergendoli nella base di calce il pavimento era chiamato opus segmentatum mentre con l’espressione opus sectile si intendeva la giustapposizione di marmi colorati, nei quali quasi non si vede il sottofondo.
Il pavimento musivo (opus tasselletum) ebbe grande diffusione nel tardo impero, in epoca paleocristiana e in ambito bizantino. Passato il periodo barbarico e il medioevo nel quale abbiamo pochi esempi, l’arte dei terrazzieri rinacque in Friuli a partire dal XV secolo e si sviluppò di pari passo con gli splendori della Serenissima Repubblica Veneta, durante i quali assunse una grande perfezione tecnica, con manufatti di grande durata e di facile manutenzione e un risultato estetico di eccellente qualità che ben si sposava con l’architettura, la pittura e gli stucchi veneziani.
Il terrazzo alla veneziana veniva posato non solo al pian terreno, ma anche ai piani superiori, su strutture lignee (travi e assi). Il legante del fondo su cui venivano seminate le scaglie di marmo era, tradizionalmente, la calce che conferiva al pavimento una grande elasticità ed un calore tutto particolare. La calce presupponeva, purtroppo, tempi lunghi, anche cinque o sei mesi, durante i quali il pavimento doveva essere periodicamente battuto per far aderire le scaglie e per far uscire dal sottofondo l’acqua.
Come tutti gli altri artigiani anche i terrazzieri ebbero una confraternita, un gonfalone e un santo protettore che, a Venezia, era San Floriano, precise norme regolavano l’apprendistato e presiedevano l’ammissione dei nuovi membri nell’Arte Nostra de Terrazieri. |
Protagonisti di questa bella avventura sono i ciottoli calcarei e i ciottoli di vari colori dei fiumi friulani: il Cellina, il Meduna, il Tagliamento e soprattutto i bravi artigiani friulani provenienti prevalentemente da Pordenone, Sequals Spilimbergo e Solimbergo che hanno portato questa tecnica artigianale a risultati di alto artigianato artistico.
La caduta della Repubblica ebbe l’effetto negativo di distruggere il sistema delle corporazioni e delle fraglie che tanto avevano contribuito al progresso dell’arte, ma favorì la diffusione di quest’arte in Europa e in America, grazie a maestranze italiane che aprirono proprie filiali in quei paesi.
Agli inizi del Novecento la calce fu lentamente sostituita dal cemento che asciugava più in fretta: bastavano infatti pochi giorni per il suo indurimento. Questo pavimento era, tuttavia poco flessibile e mal si adattava ad essere posato sulle strutture lignee che erano, per loro natura elastiche.
Bibliografia
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