Eventi della Galleria 2011

Gli artisti di Artanda celebrano i 150 dell’Unità d’Italia

Dal 16 luglio al  10 agosto 2011

con Inaugurazione sabato 16 luglio
GLI ARTISTI DI ARTANDA CELEBRANO I CENTOCINQUANT’ANNI DELL’UNITA’ DI ITALIA
Libere espressioni in tricolore


Scarica il pieghevole dell’evento (esterno, interno del pieghevole)

Chiamati a celebrare il Centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, gli artisti della Galleria “Artanda” in quale simbolo si sono riconosciuti?
Nella bandiera.

Il 2011 è anno di riscoperte. Della storia nazionale (con una predilezione verso il Risorgimento).

Delle sue figure di più alta statura (da Mazzini a Vittorio Emanuele II; da Cavour a Garibaldi). Dei personaggi locali di primo rango (per noi Saracco, che già nel 1847 chiede a Carlo Alberto, in visita ad Acqui, la Costituzione; il generale Chiabrera combattente di tante patrie battaglie e, dunque, “primo soldato acquese”; il maestro Giovanni Tarditi, celebre direttore di bande militari, compositore di marce, inni, e descrittivi poemi in musica), ma poi anche di oscuri eroi, caduti sui campi di battaglia.

Grazie a Roberto Benigni, e a cento ascolti, anche Il canto degli Italiani di Goffredo Mameli è divenuto più familiare. E’ quello il vessillo musicale dell’Italia, cui naturalmente collaborano tutte le strofe del testo.
E così, giusto la seconda (non conosciuta ancora come si dovrebbe) racconta degli Italiani “…da secoli / calpesti, derisi,/ perchè non siam popolo / perché siam divisi”.
A questa dolorosa situazione i versi contrappongono un simbolo: quello della bandiera.
“Raccolgaci un’unica / bandiera, una speme”. Proprio così: con tanto di spezzatura, che va a sottolineare un tricolore che i vecchi testi scolastici direbbero che “garrisce”, ovvero freme, grida nel vento. La bandiera sembra essere cosa viva; dunque ha una voce.
E, a leggere le fonti del Risorgimento, quelle popolari e quelle ufficiali, ecco che gli sbarazzini dialetti e le tornite espressioni della poesia più alta rendono la fortuna delle bannere tricculurate, di coccarde, di sciarpe, di cravatte da associare ad altri simboli.

A Napoli nel 1848 le bandiere reali son circondate dai colori italiani; atti ufficiali toscani esaltano “il vessillo italiano dell’Indipendenza”. E, ancora, sempre nel 1848, proprio “Il Vessillo Italiano” è il nome del giornale patriottico che si stampa in Modena, per i tipi di Nicola Zanichelli.
Da Molteni a Induno, dal Bianchi al Teja c’è il tricolore nelle tele, nei disegni e, ancora, nei versi degli inni che accompagnano i volontari.

“Fischiano i venti, la notte è nera; / batte la pioggia sulla bandiera; / finché nel cielo rinasca il giorno, / giriam fratelli, giriamo intorno” cantano “le guardie dai tre colori”, nei versi del friulano Teobaldo Ciconi († 1863).
L’ Inno del popolo “Giovani ardenti”, d’autore ignoto, ma in linea tanto con i versi di Mameli,
quanto con quelli di Manzoni del Marzo 1821, recita “Stringiamoci assieme, / di trombe allo squillo, /giuriam sul vessillo / vittoria o morir!”
Francesco Dell’Ongaro († 1873), esultando, verga questa quartina che sembra sboccargli spontanea: “Com’è bella la nostra bandiera / come splende di luce sincera! / Batte in petto più rapido il core / all’aspetto dei vaghi color”.
E dove sventolano le bandiere? Nell’immaginario patriottico eccole al vento sulle torri di San
Martino e Solferino (dove, il 24 giugno 1859, a combattere c’era anche la Brigata “Acqui”, con i sui due reggimenti, il 17° e il 18° fanteria).

***

Per gli artisti di Artanda l’eredità, sin qui ricordata (pur per esempi e campioni), costituisce un innegabile substrato. Forse lontano. Forse inconsapevole. Ma tangibile.

E, dunque, i tre colori sono il punto di partenza. Ma, poi, ognuno percorre il cammino che è
all’artista più congeniale. E, così, le tante derive, le interpretazioni, le declinazioni raccontano: ci sono le esposizioni più classiche, eredi di modi figurativi che non si discostano dall’idea di un paesaggio “con bandiera”, che non sarebbe spiaciuto ai pittori del Risorgimento. O le “serie” di immagini bordate da tricolori, al modo delle bandiere borboniche del 1848.
Ma poi l’ispirazione alimenta soluzioni più ardite: si coinvolgono, in una sarabanda, i numeri che identificano il secolo e mezzo; verde, bianco, rosso non solo diventano sfondo scenografico e “casa”, ma ora si disperdono in volute d’onda o di fumo, ora si riducono a piccolo nastro. Ora il bianco dilaga e riduce gli altri due componenti a tratto minoritario.
In altre opere un chiaro riferimento alle spinte centrifughe, all’Unità incompiuta, rimessa in
discussione: terranno, allora le cuciture? Quale il movimento della cerniera? Servirà per unire, per accostare i due lembi del tessuto, o per marcare un insanabile allontanamento?
Certo: i tempi cambiano. Se una volta erano gli Eroi (i sovrani, i condottieri, i ministri “tessitori)” a campeggiare nel bianco del tricolore, ora al loro posto un abbraccio di senza nome. Per manifestare il bisogno di una umana solidarietà? O il trionfo degli affetti? L’imporsi della dimensione privata?
Dalla lettura del campione dei quindici artisti (liberi di rendere il tema nei modi a loro più congeniali: olio, acquerello, fotografia; c’è chi cerca anche una tridimensionalità), infine, un ultimo dato che emerge. Nella visione contemporanea, che tende a sostituire (o a cancellare) gli acclamati protagonisti
di ieri, solo Garibaldi sembra resistere.
L’immagine del vecchio condottiero esiliato a Caprera; le camicie rosse; il festoso salutare dei volontari, pieni di fiducia e speranza, da una barca indicano come, in effetti, scolorito il ricordo delle imprese ufficiali, dell’epopea dell’Ottocento sopravviva sì il richiamo. Ma affidato alla figura più irregolare, imprevedibile e, in certo qual modo, naif.
In fondo, quella che nella “più libera espressione” seppe interpretare i tempi suoi.
Giulio Sardi

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