Gommalacca e oleoresine
Fonte: Liberamente tratto da “Le Antiche vernici per il legno – resine-oli-cere-pigmenti ” di Pierpaolo Masoni
Storia della gommalacca
Originariamente la lavorazione della gommalacca era finalizzata esclusivamente all’estrazione del pigmento rosso che le conferisce la tipica colorazione. Il suo uso in tal senso è citato da Claudius Aelianus (170-235 d.C.) nel suo “Sulla natura degli animali”; si suppone, comunque che tale tintura fosse conosciuta dai Greci da almeno cinque secoli prima. Ctesia di Cnido nel v secolo descrivendo l’India nel suo poema Indika pervenutoci soltanto attraverso frammentarie descrizioni, parla di certi insetti che vivono sui rami e alla fine del loro ciclo vitale lasciano una crosta di gusci dai quali viene estratta una sostanza resinosa ed una colorante.
Dioscoride, medico greco che operò in Roma durante il primo secolo d.c. ne parla come di una sostanza medicamentosa.
Con la decadenza dell’impero romano i commerci con l’oriente si fermarono e dobbiamo aspettare i primi grandi viaggi del ‘500 per risentirne parlare.
Garcia de Horta, medico portoghese, ne parla nel suo Colloquios dos simples (Goa 1563). Nel 1595 è un certo Linschoten a parlarne nel volume Wayage Ofte Schipvaert descrivendo come in India venisse usata come resina termoplastica su stoviglie lignee modellate al tornio, accostandone cioè un blocco alla stoviglia in movimento; il calore provocato dall’attrito scioglieva la gommalacca che si depositava sul manufatto agganciandosi intimamente alle fibre del legno. Successivamente veniva lucidata mediante lo sfregamento di paglia o altre fibre vegetali.
Probabilmente è solo in questo secolo che nascono le prime vernici costituite da resine sciolte in alcol. Ne troviamo notizia ne I Secreti di Alessio Piemontese del 1555 e nel successivo Compendio di Secreti Rationali, e nel manoscritto del Fioravanti del 1592 Ricette per ogni sorte de colori conservato presso la Biblioteca Universitaria di Padova.
Nelle ricette che vengono descritte la gommalacca è sempre associata ad altre resine naturali. Il loro scopo è di imitare le lacche cinesi che in quegli anni incominciavano ad arrivare in Europa e tanta impressione avevano destato.
Nel 1667 un gesuita, Athanasius Kircher pubblica un volume dal titolo Cina Monumentis qua sacris qua profana illustratis, noto anche come Cina illustrata nel quale riporta racconti di missionari; racconta, tra l’altro, di aver conosciuto a Roma un frate agostiniano, certo Eustachius Jamart che realizzava oggetti lignei con una finitura molto brillante della quale gli rivelò il segreto soltanto in punto di morte. Si trattava di gommalacca stesa a pennello.
Un altro gesuita, Filippo Bonanni nel Trattato sopra la vernice comunemente detta cinese, pubblicato a Roma nel 1720 racconta come l’interesse per l’oriente avesse creato una moda per gli oggetti verniciati con resine sciolte in alcol. Tali vernici dette a solvente volatile furono accolte dai falegnami con una certa diffidenza sia per il loro alto costo, sia per la loro fragilità, apprezzandone unicamente il vantaggio di una rapida essicazione.
Due importanti trattati sulla verniciatura, L’art du peintre, doreur et vernisseur del Watin (Parigi 1773) e il Traitè theorique et pratique sur l’art del faire et appliquer le vernis del Tingy (Ginevra 1803) parlano della gommalacca in modo del tutto marginale e non menzionano la tecnica della stoppinatura. Nel trattato del Watin si trova una ricetta che successivamente verrà molto usata in liuteria: si tratta di gommalacca, sandracca, mastice, elemi e colofonia.
Nel 1807 sul periodico Annales des art et des manufactures viene pubblicato un articolo su una nuova tecnica di verniciatura praticata da un ebanista Viennese. Si descrive la stesura della vernice mediante un tampone di tela imbevuto di gommalacca. La facilità di esecuzione ed … i brillanti risultati provocano la nascita di una vera e propria moda. Negli anni successivi vengono pubblicati molti manuali, e tale tecnica si diffonde non solo presso i falegnami, ma anche fra i dilettanti.
Le sue proprietà termoplastiche venivano sfruttate dagli ebanisti per eseguire piccole stuccature prima della verniciatura. Queste qualità, unite al suo costo molto contenuto, ne hanno fatto per tutto l’ottocento la resina per eccellenza nella verniciatura di mobili eleganti, soprattutto intarsiati ed impiallacciati.
Sovente veniva mescolata con colofonia o con orpimento (altrimenti detto giallo reale o giallo del re: solfuro di arsenico) per ravvivarne i riflessi giallo dorati. Può anche essere mescolata con altre resine quali la Sandracca, la Copale di Manila, la Elemi, la Dammar, la Mastice in lagrime, per aumentarne la brillantezza e la resistenza.
Uso improprio della gommalacca
Risalgono a questo periodo, nel quale il legno incomincia ad essere lavorato con sistemi industriali, certe cattive abitudini che persistono nelle nostre botteghe di restauro. Nella quasi totalità degli interventi, nelle nostre botteghe, si procede sistematicamente ad una completa sverniciatura e riverniciatura dell’Oggetto. Questa metodologia di intervento semplifica notevolmente il procedimento “concettuale” e, a volte, quello tecnico, ma, nella sua rozzezza, non sempre perviene a buoni risultati.
Il procedimento di inceratura che viene usato ormai come consuetudine si può riassumere in questi termini:
– colorazione con “ rolla” diluita in acqua o con anilina in solvente alcol, o con pigmenti di ultima generazione;
– fondo con gommalacca stesa a pennello;
– pagliettatura leggera;
– inceratura.
E’ auspicabile che anche nelle più modeste botteghe di restauro si impari ad essere più rispettosi delle vecchie vernici e delle cere che non sempre occorre eliminare con la violenza e la drasticità di una sverniciatura. Spesso basterebbe una pulizia con acquaragia atta ad eliminare soltanto la sporcizia lasciando inalterata la superficie con il trattamento originale che il più delle volte è tuttora valido, o, eventualmente, abbisogna soltanto di essere ravvivato con una leggera olioresina, o con una olioresina mescolata con cera.
Il mio primo incontro con questa vernice risale ad una quarantina d’anni fa, nella bottega di un vecchio restauratore umbro. Una bottiglia persa fra tante altre e sotto polvere tanto antica da sembrare ormai incorporata nel vetro, con un’etichetta consunta con una scritta vecchio stile in diagonale, quasi illeggibile. Alle mie domande mi venne risposto che si trattava di una vernice fantastica che non veniva più fabbricata, che veniva usata, come già detto, come fondo per la cera, da sola come vernice a finire, e persino, con aggiunta di alcol, per stoppinare, ma oramai anche lui aveva dovuto rassegnarsi ad usare la gommalacca, con i risultati scadenti che sappiamo.
Anche a me era stato insegnato ad usare questa tecnica come fondo per la cera, e le parole del vecchio restauratore mi colpirono perché i risultati ottenuti con la gommalacca non erano soddisfacenti. Mi dedicai ad una ricerca storica che mi diede vari riscontri, ed a una ricerca di tipo merceologico. Arrivai a scoprire come molte di queste vernici venissero ancora prodotte, ma pubblicizzate senza riferimenti alla loro collocazione storica, così che molti operatori magari le utilizzavano senza effettivamente sapere di cosa si trattasse.
Purtroppo il restauro ligneo si è sempre mosso in sottotono. Da un lato vi è stato un fiorire di botteghe condotte da artigiani che, magari hanno una maestria manuale di tutto rispetto, ma che in quanto a cultura del restauro sono estremamente carenti; d’altro canto, i maestri del restauro sono sempre stati impegnati a recuperare Opere d’arte, al cui confronto il mobile risulta ben poca cosa.
Sta di fatto che per trovare riscontri sulle oleoresine ho dovuto rivolgermi ad altri settori a volte ancor più trascurati dalla cultura del restauro. I liutai, per esempio, usano tuttora oleoresine, sebbene siano per lo più filmanti. Nella pavimentistica se ne usano ancora. Pensiamo al cotto: quando viene trattato in modo classico si usa una oleoresina a base di olio di lino cotto. Nell’ambito della nautica vi sono ditte che fabbricano ancora vernici oleoresine che, mi si dice, risultano ancora essere le più resistenti in ambiente marino.
Gli stessi fabbricanti spesso ignorano totalmente la storia di ciò che producono, limitandosi spesso a ripetere in modo becero nozioni che hanno imparato per tradizione.