La Cartapesta

L’importanza della cartapesta

La cartapesta è un’espressione artistica che si può definire un’eccellenza della cultura italiana. La tecnica in Occidente è frutto dello sperimentalismo rinascimentale.

Fonte: Ezio Flammia

In occasione delle celebrazioni dedicate al Mastru Rafele, il famoso pupazzo in cartapesta e in memoria del terremoto del 1905, si è tenuto a Castrolibero (CS), Chiesa di San Giovanni un Convegno su “L’Arte della Cartapesta”.

Pubblichiamo volentieri l’intervento che il Maestro Ezio Flammia ha tenuto all’interno di questo suggestivo convegno.

L’importanza della cartapesta

La cartapesta è un’espressione artistica che si può definire un’eccellenza della cultura italiana. La tecnica in Occidente è frutto dello sperimentalismo rinascimentale.

I miei studi, concretizzati in 5 pubblicazioni, di cui tre interamente dedicati all’arte della cartapesta, hanno analizzato,  questa particolare produzione, ad iniziare da quella che usciva dalle botteghe toscane della metà del Quattrocento, sino alle sperimentazioni di alcuni artisti contemporanei. Lungo il percorso storico ho individuato i motivi che hanno generato l’espansione della tecnica in altre regioni dell’Italia, in quelle europee e persino negli Stati Uniti.

La cartapesta degli esordi, evolvendosi dallo stucco, raggiunse la sua singolarità materica attraverso le esperienze lavorative di grandissimi artisti. Jacopo della Quercia, alla fine del Trecento, fu il primo a collaudare un amalgama (che anticipava la cartapesta). L’amalgama si componeva di diversi ingredienti, ma soprattutto di filamenti, scarti di stoffa che erano simili alle fibrille contenute nelle carte antiche.

Le carte, in passato, sino alla metà dell’Ottocento erano prodotte dalla frantumazione e macerazione degli stracci di canapa, di lino e di cotone.

Pochi sanno che, dalle botteghe di Donatello, di Antonio Rossellino, di Benedetto da Maiano e di altri scultori del Quattrocento fiorentino uscivano copie di cartapesta ricavate da calchi di gesso. I prototipi, da cui si ricavavano i calchi, avevano bassi rilievi (con pochi sottosquadri), perciò erano già predisposti per una produzione seriale adatta a soddisfare le esigenze di culto e le necessità spirituali di una clientela di modeste condizioni economiche. Purtroppo moltissime di queste opere sono andate distrutte.

 Una delle opere che miracolosamente si è salvata è una bellissima Madonna col Bambino di Donatello che si conserva al Louvre in una sala interamente dedicata all’arte italiana del Quattrocento toscano. Le opere esposte sono tutte realizzate con materiali considerati poveri quali lo stucco e la terracotta. Le materie della scultura, che allora erano considerate nobili, erano il marmo e il bronzo, mentre il legno e la pietra erano classificati poco nobili, lo stucco la ceramica e la terracotta erano inseriti tra le arti povere.

La cartapesta era valutata una ‘materia vile’ poiché era generata da umili stracci. Per questo non è stata studiata e, nel migliore dei casi, era considerata una delle espressioni dell’arte popolare.

Nonostante questi pregiudizi, la duttilità materica della cartapesta ha affascinato eminenti personalità dell’arte e, per l’economicità della lavorazione, è stata utilizzata per realizzare oggetti d’artigianato dell’industria e del design.

La definizione cartapesta iniziò a circolare tra gli artisti e tra i maestri di bottega del primo Rinascimento per indicare una particolare produzione di opere d’arte realizzate con la carta.         

Sull’origine e sulla denominazione, come ho prima accennato, si hanno pochissime e frammentate notizie. Le informazioni attendibili si deducono da alcune annotazioni di bottega come quelle di Neri di Bicci. Il maestro fiorentino è stato tra i primi a valersi per i suoi scritti della designazione cartapesta (dall’unione di carta e pesta). Neri di Bicci, tra 1453 e il 1475, compilò un dettagliato diario di lavoro dal titolo Ricordanze in cui annotava che doveva colorare e in parte dorare 3 delfini e 4 simboli degli Evangelisti di cartapesta, opere di Giuliano da Maiano.

Vasari, nelle due edizioni delle Vite, quando commentò le opere realizzate con la cartapesta staccò il sostantivo dal verbo. Egli scriveva carta pesta forse per una finezza linguistica volendo rimarcare l’etimologia del verbo derivante da una tecnica manipolativa che si realizzava mediante l’uso della carta pestata

Gli artisti senesi e fiorentini che per primi hanno utilizzato la cartapesta, impiegavano sia i fogli di carta incollati uno sull’altro, sia un pesto di carta che Vasari definì carta pesta nella “Vita” di Domenico Beccafumi. L’artista senese realizzò nel 1530 un enorme carro semovente in onore di Carlo V in visita a Siena, anticipando di molti secoli i carri allegorici del Carnevale viareggino.  

La cartapesta che era valutata una ‘materia vile’ come ho accennato, incominciò ad interessare alcuni storici dell’arte solo nella seconda metà del XIX secolo. I primi studi, condotti con serietà, furono rivolti ai rilievi della Vergine col Bambino degli artisti toscani del XV secolo. Questo interesse era collegato alla costituzione di alcune grandi collezioni come quelle presso il Kaiser Friedrich Museum di Berlino (oggi Bode Museum), presso il South Kensington Museum di Londra (oggi Victoria and Albert Museum) e presso il Louvre di Parigi (poiché si volevano ampliare le collezioni di sculture.)

 Protagonisti di questa stagione di rinnovamento culturale furono Wilhelm Bode conservatore poi direttore del museo di Berlino e Louis Courajod, conservatore delle sculture del Louvre. I due storici dell’arte per primi intuirono il valore e la grandezza delle opere d’arte in cartapesta, anche perché alcune erano attribuite a sommi artisti. I due studiosi, nei loro frequenti viaggi in Toscana, acquistarono numerose opere di qualità eccezionale, furono favoriti anche dalle occasioni offerte da un mercato incontaminato. I due avevano contatti con mercanti esperti e di grande cultura come Stefano Bardini che possedeva le opere migliori del Quattrocento toscano e di altri periodi soprattutto di quel genere appartenente alle cosiddette arti minori. 

La produzione di cartapesta non si è limitata ai bassorilievi devozionali.

Sempre a Siena, tra la fine dei ‘400 e gli inizi del ‘500, si producevano meravigliose cornici tonde di cartapesta dorata (alcune di grandi dimensioni), sia per contenere dipinti di artisti famosi e sia per specchiere. Opere di questo tipo erano destinate all’aristocrazia, per cui la cartapesta, che era nata per riprodurre copie da prototipi di scultori famosi da destinare ad un mercato secondario, si affermò anche in ambienti colti e raffinati.

Del periodo rinascimentale, conosciamo alcuni manichini che erano delle vere statue da vestire utilizzati per particolari celebrazioni religiose e i mappamondi (sfere o globi celesti e terrestri). Uno dei primi ad adoperare la carta nell’impasto per costruire i mappamondi fu il frate domenicano Egnazio Danti (matematico, architetto, teorico della prospettiva e cosmografo).

Il domenicano, verso la metà del ‘500, costruì un mappamondo (diametro cm.220) per Cosimo I dei Medici che si trova ancora oggi nella Sala delle carte geografiche in Palazzo Vecchio a Firenze. Sull’esempio di Egnazio Danti, un altro monaco (dei frati minori), Vincenzo Coronelli, realizzò verso la fine del ‘600 una serie di globi terrestri e celesti di cartapesta, di questi i più singolari furono quelli eseguiti per Luigi XIV, destinati alla reggia di Versailles, ora conservati presso la Biblioteca nazionale di Francia. I due globi che misurano all’incirca 4 metri di diametro sono i più grandi che siano stati costruiti a quell’epoca. “Costituiscono una preziosa fonte d’informazioni sulle conoscenze scientifiche sulla geografia e sull’astronomia della fine del XVII secolo. La loro creazione fu finanziata dal cardinale d’Estrées, che li offrì a Luigi XIV”. 

La cartapesta durante il periodo barocco ottenne la massima affermazione poiché il suo ruolo fu preminente in diversi ambiti.

 Non solo il grande regista del barocco Bernini, ma anche Algardi, Padre Pozzo ed altri, utilizzarono la cartapesta per diverse finalità: per realizzare carri allegorici, per gli apparati effimeri, per esempi di prova e per le scenografie di opere teatrali, comprese le famose Ridicolose in voga negli ambienti colti romani del Sei e Settecento.

Bernini, oltre ad essere l’autore dei testi di alcune Ridicolose, era il regista e lo scenografo dell’allestimento e, a volte, partecipava alle rappresentazioni anche come attore.

La cartapesta, oltre  all’impiego nella scenotecnica e nella messa in scena teatrale, fu utilizzata per tutte le feste barocche, come quelle della cuccagna durante i carnevali e quelle religiose allestite nelle chiese.

 Difatti furono in parte realizzati in cartapesta gli allestimenti del Corpus Domini, le macchine processionali, le Quarantore e persino i catafalchi funebri.

 Gli esempi di prova, che per primo li sperimentò Jacopo Sansovino, erano delle cartapeste che si eseguivano per saggiare la perfetta risoluzione estetica di un’opera prima della fusione di bronzo. Straordinari erano quelli di Bernini. Un esempio fu la cartapesta prodotta per il monumento funebre della Beata Maria Raggi nella Chiesa di S. Maria sopra Minerva a Roma. Bernini eseguì, (o fece eseguire dai suoi allievi), una bellissima cartapesta dorata, copia fedele del bassorilievo rappresentante il volto della beata che doveva essere tradotto in bronzo. L’esecuzione dell’esempio di prova o di fusione fu necessario per collaudare sul monumento della beata, già in fase avanzata di costruzione, la posizione precisa, l’inclinazione e il volume del bassorilievo in rapporto con gli angeli e con i marmi di diversi colori, in un’insolita soluzione estetica.

 Il monumento, costruito su un pilastro della chiesa, doveva rappresentare un drappeggio funebre che, impigliato in un braccio della croce, veniva trascinato in alto da due puttini-angeli unitamente ad un ovale che conteneva il volto della beata Maria Raggi. Il volto, centro d’interesse del monumento, doveva essere visto dal basso verso l’alto in una zona della chiesa poco illuminata. Perciò occorreva un esemplare di prova per esaminare la giusta posizione del volto, l’effetto visivo del volume e la tonalità della doratura prima di dare inizio alla fusione di bronzo. L’esempio di cartapesta, nonostante la fragilità della materia cartacea e l’inclemenza del tempo, è ancora d’ineffabile bellezza, si può ammirare in una vetrina del museo di Palazzo Venezia a Roma.

Aspetti singolari degli apparati di quest’epoca erano le macchine pirotecniche come quelle della Chinea che erano allestite in Piazza S.S. Apostoli a Roma.  La Chinea era una ricorrenza che si celebrava nei giorni 28 e 29 giugno di ogni anno. La festività risaliva ai Normanni ai quali il Papa concesse il feudo di Napoli e del Mezzogiorno in cambio di una somma di denaro che riceveva in un vaso d’argento, fissato al basto (sella) di una mula bianca, detta la chinea. Ogni anno la mula, alla testa di un sontuoso corteo, lo trasportava alla sede del Papa in Vaticano. Al termine dei festeggiamenti, le macchine pirotecniche, ripiene di figure antropomorfe di cartapesta, si facevano esplodere secondo il rituale effimero di tutte le feste.  I fantocci di cartapesta, azionati dalla forza propulsiva dei fuochi, si muovevano e si disfacevano in un’insolita situazione creando scene fantasmagoriche.

La cartapesta oltre agli allestimenti effimeri fu utilizzata per fini pratici, come l’insonorizzazione di alcuni ambienti di teatro, un esempio importante è stato quello del Palazzo reale di Napoli.

Nel 1768, in occasione del matrimonio tra Ferdinando I delle Due Sicilie e Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, si decise di trasformare in teatro la Sala regia che era con poca acustica, perciò insufficiente per le rappresentazioni di prosa e soprattutto di musica.

Ferdinando Fuga, progettista della ristrutturazione, in virtù delle qualità fonoassorbenti della cartapesta, programmò di far realizzare ad Angelo Viva dodici statue da sistemare nelle nicchie delle pareti e un grande baldacchino in fondo alla sala. Le statue e il grande baldacchino di cartapesta avevano non solo la funzione estetica di abbellimento, ma anche di insonorizzare il teatro. Per questa ragione, tutte le decorazioni di stucco dei teatri (lesene, capitelli cornici e altro), dal Settecento in poi, furono realizzate in finto stucco o stucco leggero di cartapesta che era un composto di gesso e di una consistente quantità di carta pestata. Il finto stucco oltretutto era più appropriato alla doratura.

La cartapesta per i minori costi e per i tempi di produzione fu utilizzata per i soffitti delle chiese per nascondere le capriate e nei palazzi come controsoffitti per rendere più confortevoli gli ambienti.

Nel museo delle Arti Orientali di Roma, nelle sale III e IX, quando era in via Merulana (al primo piano del Palazzo dei nobili Brancaccio), si potevano ammirare due controsoffitti di ottima fattura anche se esteticamente diversi. Dalla metà dell’Ottocento sino ai primi anni del Novecento i manufatti di cartapesta erano di moda, questo spiega la presenza dei due soffitti in ambienti aristocratici.

 Alla fine del Settecento sino ai primissimi anni del Novecento la cartapesta fu impiegata per costruire mobili pregiati e suppellettili di ogni tipo. Famosi furono i mobili eseguiti in Inghilterra nel periodo vittoriano che erano impreziositi con decorazioni in madreperla e laccati. Gli artigiani inglesi, per aumentare la solidità e la durata dei mobili di cartapesta, laccavano le superfici esterne con particolari prodotti resistenti, durevoli e impermeabili.

Questi mobili erano molto richiesti non solo dalla ricca borghesia inglese, ma anche da benestanti di altri paesi (maggiormente negli Stati Uniti). Uno dei costruttori e creatori dei mobili inglesi, tra il 1825 e il 1875, fu Joshua Bettridge di Birmingham.  Egli fu il mobiliere e l’arredatore più affermato, vendette ed espose i suoi prodotti dappertutto, arredò le migliori case inglesi e fu il fornitore preferito della Regina Vittoria.

La cartapesta, inoltre, fu adoperata per qualsiasi prodotto dell’artigianato e persino per quelli di uso quotidiano: dalle scodelle alle suppellettili, dai cofanetti alle tabacchiere, dai bottoni alle tazzine da caffè.

 Ai primi del Novecento, fu introdotta nella produzione industriale d’Europa e degli Stati Uniti. Da qui la cartapesta fu definita la “tecnica universale”.

 La cartapesta, per economicità e rapidità esecutiva, fu utilizzata per le costruzioni di ville e persino per edificare una chiesa in Norvegia e una grande e canoa negli Stati Uniti.

Werner Hosewinckel Christie (Tysnes 1746 Bergen 1822), norvegese, benestante, esperto nell’arte della edificazione appresa all’estero durante i suoi numerosi viaggi, tornato in patria, costruì una grande chiesa di cartapesta (1793), una casa colonica per la sua famiglia e una serie di fabbricati per i suoi contadini.

  La chiesa, secondo le descrizioni di Lyder Sagen e Cornelius de Jong pubblicate sulle riviste, “La Letteratura del Nord” e ”Minerva”, conteneva da 800 a 1000 persone. L’interno era a forma circolare, l’esterno ottagonale con gli spigoli rinforzati da pilastri. L’edificio era coperto da tetti spioventi, al centro vi era una cupola sormontata da una lanterna a cuspide che illuminava l’intero ambiente.

Per i muri esterni, Christie utilizzò le pietre incollate con solfato di zinco e gesso (un composto sperimentale prima del cemento armato).

I rivestimenti delle pareti interne ed esterne, dei pilastri (di legno) e le decorazioni furono eseguite in cartapesta. Per quello che Cornelius de Jong (capitano olandese), riuscì a far dire a Christie durante una delle interviste pubblicate, la cartapesta era formata da un impasto di carta vecchia (del riciclo), imbevuta di acqua vetriolo (acido solforico), calce, siero di latte, albume d’uova, materiale fibroso (cotone, canapa), polvere di marmo e gesso. L’impasto, al parere di Cornelius de Jong era malleabile come quello del pane, ma una volta essiccato diventava duro come la pietra che “né fuoco né acqua potevano danneggiarlo”. L’impermeabilizzazione era ottenuta immergendo il materiale “in una soluzione di calce viva, latte cagliato, e albume”.

 Per quanto riguarda la canoa che fu costruita dall’azienda di Eliseo Waters & Figli di Troy, nello Stato di New York, questo è un aspetto del tutto singolare della cartapesta statunitense.

L’azienda di Eliseo Waters, intorno alla metà dell’Ottocento costruiva barche di carta ed aveva l’esclusiva mondiale di produrre vari tipi d’imbarcazioni di carta. Le barche che all’epoca erano adoperate come comuni veicoli acquatici, erano note anche perché ricordavano il lungo viaggio che intraprese Nathaniel Holmes (vescovo, esploratore, membro della Società di Storia Naturale di Boston e dell’Accademia delle Scienze di Nuova York). Questo insolito personaggio, intraprese con una canoa di carta un lungo viaggio di 2500 miglia dal Quebec al Golfo del Messico che durò dal 1874 al 1875.  La canoa, costruita da Eliseo Waters su indicazione di Nathaniel Holmes, era lunga 14 piedi. Lo scafo fu realizzato con un unico foglio continuo bagnato di colla che fasciava più volte il modello di base della canoa sino a ottenere il guscio del natante da diporto di consistente spessore. Alla carta, di grossa grammatura, fu aggiunta qualche fasciatura di stoffa (lino o canapa) per irrigidire meglio lo scafo. La carta era quella di Manila, di ottima qualità, molto fibrosa, resistente, flessibile, ricavata dalle foglie di abacá. La canoa, al termine della lavorazione, rifinita con diverse mani di vernici idrorepellenti, pesava solo 58 chili, molto inferiore rispetto ad un analogo scafo di legno. Nathaniel Holmes che battezzò la canoa Maria Theresa, iniziò il viaggio con il proposito di individuare, attraverso i corsi d’acqua naturali e artificiali una via di collegamento dalla partenza all’arrivo.  Egli documentò il suo avventuroso viaggio nel libro “Voyage of the Paper Canoe”, Boston 1878. Il vescovo nel libro asserì che la canoa di carta, “sicuramente, per resistenza, rigidità, velocità e finezza di modello, era senza rivali”.

Anche i giocattoli di cartapesta ebbero una diffusione vastissima in Italia, in Europa, nelle colonie dell’Africa settentrionale e nelle Americhe.

Anche questi manufatti, come gran parte della produzione artistica di cartapesta, hanno subito l’ostracismo retaggio di un vecchio pregiudizio basato sulla povertà della materia. Perciò molti giocattoli sono andati distrutti per incuria e sostituiti quando la plastica ha soppiantato la produzione industriale della cartapesta.

Il vero declino della cartapesta nella produzione d’arte iniziò verso la fine dell’Ottocento e si accentuò agli inizi del Novecento, quando un’enorme produzione di manufatti artigianali e industriali, per diversi usi, invase il mercato. Il trapasso della cartapesta dalla sfera dell’arte a quella dell’artigianato e in seguito a quella dell’industria, fu inteso dalla critica e dal pubblico, quasi unanimemente, come un declassamento della materia.

 La cartapesta, lentamente, fu emarginata dalle attività d’arte e di conseguenza fu valutata irriverente e indecorosa ad esprimere il sacro e inadatta a rappresentare le espressioni d’arte.

È ancora perdurante il convincimento che la povertà della materia produca un’aridità artistica, sebbene le esperienze contemporanee elevino qualsiasi materiale a forme d’arte: uno dei movimenti  moderni si denomina proprio Arte Povera. 

Per fortuna negli ultimi 30 anni sulla spinta delle riscoperte delle antiche tradizioni e d’importanti studi demologici, c’è stata una lenta ma costante rivalutazione della cartapesta.

Un avvenimento che ha segnato una svolta risolutiva e che ha messo in risalto l’importanza della cartapesta nella storia dell’arte italiana è stato la mostra del 2008: La scultura in cartapesta. Sansovino, Bernini e i maestri leccesi tra tecnica e artificio. L’esposizione, presso il Museo Diocesano di Milano, curata da Paolo Biscottini e Raffaello Casciaro, era divisa in quattro settori. In questa mostra (che ottenne un enorme successo), si affrontava una revisione critica  dell’arte della cartapesta, i cui risultati furono di grandissima importanza. Il processo di analisi e di apprezzamento per la cartapesta sembra perciò inarrestabile.

 A questa mostra partecipai con un’opera, un Cristo morto del ‘700 napoletano che avevo da poco restaurato e che sottoposi all’attenzione dei curatori. La scultura di ottimo livello artistico era degna di rappresentare l’arte dei famosi cartapistrari partenopei in un contesto espositivo di grandi nomi. 

La cartapesta oggi potrebbe essere un’opportunità di scelta professionale per chiunque voglia intraprendere il percorso di quest’arte, ispirato dalle esperienze del passato.

Le tecniche, utilizzate dagli artisti di varie epoche, potrebbero stimolare una nuova produzione della cartapesta su larga scala adeguata ai gusti e alle esigenze della società contemporanea. I campi d’applicazione potrebbero essere quelli topici dell’arte, ma anche dell’artigianato e del design (per la progettazione “artistica applicata agli oggetti di produzione industriale”).

E’ probabile che una nuova politica culturale acceleri le opportunità per gli artisti e motivi nuovi interessi per la cartapesta.

 Sono invece sicuro che la tutela di un patrimonio così variegato, che ha interessato ambiti diversi e tutte le classi sociali del nostro paese, possa dare avvio a nuove ricerche e contribuire alla conoscenza di un fenomeno artistico e demo antropologico straordinario, vanto della nostra cultura.

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