Maggiolini maestro dell’intarsio
Nasce nell’Ottocento una dinastia di maestri nell’arte dell’intarsio
Fonte: Alessandra Doratti
Molti dei mobili antichi più belli sono italiani. Purtroppo è vero che moltissimi di questi mobili italiani sono anonimi: non si sa chi li abbia fatti. Mentre la Francia ha avuto cura di catalogare i suoi ebanisti, anche quelli di mezza tacca, noi in Italia non sappiamo quasi nulla dei nostri. Neppure di quegli ebanisti spesso eccezionali che lavoravano per re e papi o per i gran signori di Genova, Milano, Venezia, Ferrara, Mantova, Firenze, Urbino.
Fuori dalla cerchia degli esperti di antiquariato, la notorietà degli ebanisti italiani si riduce a una mezza dozzina di nomi: i soliti Brustolon, Piffetti, Bonzanigo, forse Cucci e Palagi. E ovviamente Maggiolini. Questo lo conoscono tutti.
La storia dell’arredamento è scarsamente documentata, dunque qualche inesattezza è perdonabile, purché non si arrivi a degli spropositi come ciò che è stato detto in merito a Maggiolini. Secondo il Dizionario Enciclopedico dell’Antiquariato il Maggiolini era “intagliatore”; niente di peggio si può dire, poiché il Maggiolini detestava l’intaglio, lo usava pochissimo, snobbandolo per di più a far da piedino ai suoi liscissimi mobili.
Quello che può sembrare intaglio non è che un certosino lavoro di intarsio di foglie e fiori ecc. L’Enciclopedia dell’Antiquariato, invece, informa sotto la voce Maggiolini che: “Si sono contati su di uno stesso suo mobile sino a 87 legni di varia tonalità”. Ora è certo che il Maggiolini adoperava tante qualità di legni, ma che riuscisse ad inserirle tutte su uno stesso mobile è pura fantascienza. Un’altra sorpresa ce la rivela la Treccani che afferma: “Dopo la morte di Giuseppe Maggiolini la bottega passò ai figli e a G. A. Mozzanzanica, che fu poi suo biografo”. Sono delle notizie infondate, perché il Maggiolini non ha avuto che un unico figlio, e il suo successore Mezzanzanica non ha scritto nessuna biografia. Comunque sul Maggiolini se ne sono dette di tutti i colori. Qualche storico lo ha fatto vivere nel Quattrocento, altri lo hanno detto toscano, veneto o brianzolo, la stessa città di Milano ha avuto la bella pensata di dedicare una via ai “Fratelli Maggiolini”, quando invece i Maggiolini non erano che padre e figlio.
La biografia maggioliniana è composta, in pratica, di due soli titoli veramente originali e basilari; e cioè la biografia Genio e lavoro pubblicata nel lontano 1878 da G. A. M. ed il saggio Il Mobile Intarsiato pubblicato nel 1957 da G. Morazzoni. Ancora ben affidabile nella documentazione scritta, il saggio del Morazzoni mostra invece i suoi trent’anni e più nella documentazione fotografica: abbondantissima, ma tutta in bianco e nero e quindi riduttiva e deviante.
I mobili Maggiolini sono infatti essenzialmente “colore”: un colore splendido e indescrivibile, ottenuto dall’accostamento delle naturali policromie del legno. Chi si basa su foto in bianco e nero arriva a scrivere che il suo “cromatismo pittorico” il Maggiolini lo otteneva “servendosi di tinture e coloranti”.
Così ha appunto scritto un noto critico d’arte transalpino, che chiaramente non aveva mai visto dal vero un mobile di Maggiolini. Il quale Maggiolini era considerato insuperabile (per alchimia o per magia, dicevano i suoi concorrenti), nell’usare legni “non colorati se non da Colui che, con inarrivabile maestria, dipinge le rose e i garofani nei giardini”. Così si legge nel libretto Genio e lavoro di G. A. M. che aveva tutte le carte in regola per affermare quanto afferma sulla tecnica seguita dal nostro Maggiolini.
Purtroppo questo libro è ormai introvabile. Pubblicato a spese dell’autore (perché, si immagina, nessun editore aveva voluto correre il rischio di stamparlo), il libro non è mai più stato ripubblicato; l’unico esemplare disponibile al pubblico si trova in Lombardia ed è quello della biblioteca Ambrosiana a Milano; che però non si può né fotocopiare né avere in prestito.
Il Maggiolini è probabilmente l’unico, fra i nostri grandi artigiani, di cui ci resti una buona documentazione, sia cronologica sia tecnico-artistica. Ciò è dovuto quasi esclusivamente alle cento paginette di questo Genio e Lavoro, senza le quali oggi noi non sapremmo più che tanto su Giuseppe Maggiolini e sul suo ambiente così pieno di retroscena anche socio-politici.
Una biografia eccezionale dunque, nel suo genere, anche se più di qualcuno la ha snobbata. Questo libretto è stato scritto di proposito in modo popolare, perché, come voleva l’autore, la biografia del Maggiolini era indirizzata a giovani artisti, artefici e artigiani che volessero imparare da questo falegname di campagna come si facesse una brillante carriera. È da ricordare infatti che egli all’età di quarant’anni era divenuto l’affermatissimo intarsiatore delle LL.AA.RR. (Loro Altezze Reali).
Chi era l’autore di Genio e Lavoro, questo misterioso Sac. G. A. M. parroco di Albignano? Era don Giacomo Antonio Mezzanzanica, che anche l’enciclopedia Treccani confonde con l’omonimo allievo del Maggiolini il quale si chiamava più precisamente Cherubino Mezzanzanica, ed era il padre, appunto, del nostro prete-biografo. Qualche data servirà a capire meglio. Don Mezzanzanica (1826-1880) non conobbe Giuseppe Maggiolini (morto nel 1814) e conobbe appena il di lui unico figlio Carlo Francesco, morto nel 1834. Ciononostante egli poté diventare il loro più attendibile e documentato biografo per questa singolare circostanza. Con la morte di Carlo Francesco era finita la dinastia dei Maggiolini; e loro erede universale era rimasto Cherubino Mezzanzanica (1790-1866). Don Giacomo Antonio si trovò così a disporre di tre impareggiabili fonti di documentazione: il padre, l’archivio, la bottega.
Cherubino Mezzanzanica era entrato all’età di dieci anni nella bottega dei Maggiolini; e vi era rimasto poi sempre, trattato come un loro figliolo; messo a parte di tutte le faccende e di casa e di lavoro, anche le più riservate. “È da questo mio ottimo padre che – dotato di una ferrea memoria, aveva ritenuto a mente tutte le vicende dei Maggiolini, raccogliendole dalla loro stessa bocca – andò ripetendole a noi suoi figli; è da questo mio padre, dico, che ho potuto avere tutte queste notizie corredate coll’autenticità dei disegni acc. che vi si riferiscono”.
Senz’altro credibile dunque il nostro prete-biografo, anche quando ci parla del Maggiolini intimo. Il futuro intarsiatore nella cui bottega di Parabiago (Milano), dove egli nacque, visse e morì, sosteranno ammirati principi e cardinali; che orfano, solo e squattrinato a vent’anni prende moglie e “avendo bisogno di una persona che gli cuocesse la minestra e gli rattoppasse gli abiti, si scelse a compagna una donna, che per età gli poteva tener luogo di madre più che di sposa; e ciò non fu certo per interesse perché era povera essa pure, e per di più discretamente brutta. Il banchetto di queste nozze consistette in una polenta conciata con latte e formaggio, per mangiare la quale la sposa adoperò la forchetta (da lei portata in dote) e lo sposo, non avendola ancora, adoperò il compasso della bottega”.
Poi i soldi cominceranno a venire. Indimenticabili, per il povero artigiano campagnolo, quelli del suo primo grosso incarico: il canterano disegnato dall’architetto Levati (che lo aveva scoperto e lanciato) per la villa Litta a Lainate. Glielo pagarono subito e generosamente. Il Maggiolini «abbagliato dalla lucentezza del prezioso metallo, che per la prima volta gli toccava il palmo della mano, andava esclamando: ” È troppo, signore! È troppo! la mia fatica non merita tanto. Ma dopo il grande successo e tutti i riconoscimenti avuti dalle ricche famiglie che continuamente gli commissionavano lavori, con Napoleone, erano arrivati in Italia i sanculotti che avevano disperso la vecchia aristocrazia, dalla quale, appunto, il Maggiolini aveva ricevuto onori e denari.
Lui non era tipo da dimenticarsene. E romperà col regime napoleonico, quando gli si proporrà di tradire, spiandolo, un patrizio suo antico cliente. Era la fine, beninteso, per l’ex-intarsiatore dei principi. E il vecchio Maggiolini lo aveva capito. Suo figlio, Carlo Francesco, andrà incontro a certi brutti momenti che lo impegneranno a vendere alcuni vistosi regali, come tabacchiere, anelli, orologi d’oro e d’argento che suo padre aveva ricevuto dai clienti come premio.
Oltre a un padre dalla ferrea memoria, don Mezzanzanica ebbe a disposizione l’archivio dei Maggiolini e della loro bottega. Purtroppo non completo, perché nei trambusti avvenuti nella famiglia Maggiolini nel 1834, alla morte del figlio, un voluminoso pacco di lettere, che conteneva tutto il carteggio di corrispondenza degli amici e committenti col Maggiolini è andato perduto. Nonostante questa dispersione, era un archivio eccezionale. Ogni altra pagina, il nostro prete-biografo non manca di farcelo notare, ripetendo che lui quel documento ce l’ha lì davanti agli occhi o in una delle sue tantissime cartelle. E poi una quantità di altre memorie maggioliniane: libri, campioni, modellini, lastre incise, torchio, utensili ecc.; ma soprattutto disegni, appunti, schizzi, progetti, ornati che in buona parte sono oggi fortunatamente custoditi a Milano nelle Civiche Raccolte d’arte applicata al Castello Sforzesco.
È un materiale di incalcolabile valore per chi volesse finalmente valorizzare l’arte lombarda minore tra il Sette e l’Ottocento; e l’ebanisteria maggioliniana in primis. Tutti i più grandi architetti – decoratori, designer lombardi di allora hanno lavorato con Maggiolini; e il Maggiolini ha lavorato per tutte le più grandi casate lombarde, per molte di quelle italiane e per alcuno famiglie reali d’Europa. Don Mezzanzanica è l’unica base che consenta di ricostruire questo straordinario gotha di clienti e di progettisti.