Ottocento, la base della modernità
L’Ottocento fu un secolo estremamente complesso, pieno di fermenti, di progresso materiale ed intellettuale.
Fonte: Questo saggio è stato pubblicato, corredato da foto nel testo, in “Arredi dell’Ottocento”, di Pierdario Santoro edito da Artioli, Modena.
L’Ottocento fu un secolo estremamente complesso, pieno di fermenti, di progresso materiale ed intellettuale. Oggi nel nuovo millennio forse siamo abbastanza distanti da esso e possiamo tentarne un esame critico, scevro da quei giudizi ideologici, che hanno visto il Novecento di volta in volta esaltarlo con nostalgico desiderio dei bei tempi antichi, sereni e prosperi; o denigrarlo come massima espressione della cultura di una borghesia gretta, attaccata al soldo o gaudente e dissipatrice, esempio d’ogni gusto pacchiano tipico del parvenu.
La maggioranza dei testi nostalgici dell’Ottocento è stata scritta mentre ancora erano vivi gli ultimi garibaldini o le nonne, che di quel secolo ricordavano la gioventù ed i valzer di Johann Strauss.
Per contro dal secondo dopoguerra, un’analisi storica troppo unilaterale, vi ha riconosciuto l’origine del potere borghese, causa dei molti mali delle masse oppresse, o peggio la nascita romantica del superuomo di Thomas Carlyle, che con la sua mistica dell’eroe avrebbe fatto da apripista ai Mussolini ed agli Hitler.
Senz’altro l’Ottocento è stato anche questo, ma se i primi dimenticarono in fretta l’effettiva tragedia dell’inurbamento e dello sradicamento d’ampie parti della società, a seguito della rivoluzione industriale e del più sfrenato liberismo. I secondi allo stesso modo scordarono che esso è stato il secolo in cui hanno preso forma i capisaldi della moderna società occidentale, dal concetto di libertà personale a quello di democrazia, dall’abbattimento definitivo d’ogni teocrazia, al rispetto assoluto per tutte le fedi e tradizioni, scelte individualmente o sedimentata nelle comunità.
Movendo dalla consapevolezza che il XIX° secolo ha segnato un progresso dell’umanità senza pari in quasi tutti i campi: da quello scientifico, a quello politico, al medico, allo psicanalitico, al letterario, all’artistico. Ha dato i natali a Richard Wagner, Karl Marx, Sigmund Freud, Vincent Van Gogh, charles Darwin, Giuseppe Verdi e l’elenco potrebbe riempire questo libro. Cosa rappresenta allora nella storia questo secolo?
Per tentare di dare una risposta ritengo sia necessario affrontare i vari aspetti che compongono il quadro d’insieme, gettando un sguardo allo sviluppo economico ed a quello artistico nelle sue varietà letterarie, musicali, pittoriche. E soprattutto partire dagli aspetti pratici del vivere, condividendo le parole di Mario Praz: “Il senso ultimo d’un armonioso arredamento, è sì di rispecchiare l’uomo, ma di rispecchiarlo nella sua essenza ideale: è un’esaltazione dell’io. Per questo forse ancor più della pittura, della scultura, e perfino dell’architettura, il mobilio rivela lo spirito di un’epoca”; alle quali possiamo aggiungere che conoscere le tecniche produttive intrinseche di un’opera d’arte, ci permette un’analisi approfondita, una conoscenza strutturale meno influenzabile del giudizio critico artistico, sempre maggiormente soggetto all’ottica del presente
Il clima di un’epoca.
Iniziamo cercando di immedesimarci nell’atmosfera di una casa ottocentesca, per comprendere quali fossero gli stimoli cui erano soggetti i nostri antenati.
La cucina è rimasta uno degli ambienti che ha subito i minori mutamenti fino a tempi recenti, in essa il funzionale prevale sull’ornamentale. L’ambiente si presentava fumoso per l’ampio focolare con gli alari ed il girarrosto, una piattaia, il tavolo massiccio su cui si preparavano i cibi e le pentole, che affisse ai muri costituivano un rustico ornamento. Per secoli quest’ambiente rimase pressoché immutato, finché nel corso dell’Ottocento le stufe a carbone od a legna, il variare dell’illuminazione e nuove norme igieniche non ne iniziarono la lenta evoluzione. Nella camera un servo accanto al camino soffiava sul fuoco, per alimentarlo prima del risveglio dei padroni.
Durante la notte una veilleuse ha rischiarato con una tenue luce la stanza per allontanare le tenebre, praticamente totali, e permettere in caso di necessità di utilizzare il pitale, normalmente conservato nel comodino e non di rado svuotato dopo l’uso nel vicolo. I servizi igienici erano pressoché inesistenti ed i rari bagni erano collocati presso le cucine, per utilizzare in comune le condotte di scarico; fino al 1880 le vasche da bagno erano abitualmente costituite da tinozze trasportabili vicino al camino della camera dell’occasionale utilizzatore. Nelle case ricche esistevano apposite sale da bagno, particolarmente in voga dal neoclassico in poi, con vasche celate spesso sotto ampi divani o con monumentali vasche di marmo, ma fino alla fine del secolo abitualmente prive del cesso.
Col far della sera tutta la casa condivideva un’eguale semioscurità, interrotta da candele e lumi ad olio, i grandi lampadari erano accesi abitualmente alla presenza di ospiti, ma con l’avanzare del secolo, cortinaggi sempre più pesanti provvidero a mantenere tale atmosfera anche di giorno. Il sole con i suoi raggi violenti era sentito ostile da un’umanità abituata alla penombra, e ci si proteggeva con l’abbigliamento.
Le donne utilizzavano oltre agli ampi cappelli il parasole, ma anche velette e guanti, oltremodo necessari in un mondo generalmente lurido e nel quale un contatto casuale poteva essere fonte di trasmissione di scabbia ed altri tipi di parassiti.
Al gemtlemen non mancavano egualmente mai cappello e guanti e spesso un solido bastone ornamento tipologicamente tanto vario, che un mio amico collezionista ne possiede alcune migliaia. All’inizio del secolo per la mancanza di tutte quelle norme igieniche, che ci appaiono oggi tanto normali, e verso la fine per i fumi delle industrie, dei riscaldamenti e dell’illuminazione, le metropoli apparivano generalmente nerastre. Basti pensare che a Londra una farfalla, la cavolaia bianca, mutò di colore divenendo scura, per seguire quelle norme sull’adattamento genetico alla selezione naturale, che Charles Darwin andava scoprendo. A Roma in Via Margutta si può leggere una lapide, in cui l’incaricato papalino prescrive le multe, e per chi non poteva pagare il numero di nerbate e di giri di ruota, da comminarsi a chi avesse lordato la pubblica via. La lapide di marmo la dice lunga sul perpetrarsi nel tempo di un andazzo abituale, cui non era sufficiente porre rimedio il consueto bando cartaceo. Nella vita pubblica per tutto l’Ottocento il caffè svolse l’importante funzione non solo di ritrovo mondano, ma anche artistico, tanto da coniarsi il termine di caffè letterario. In Italia ne sopravvivono alcuni famosi, come il caffè Pedrocchi di Padova od il Florian di Piazza San Marco. Ancor più adatti a favorire l’incontro mondano furono quelli collocati nei teatri, frequentati dai signori nei palchi e dagli spiantati nei loggioni.
Alle origini del secolo.
Ogni epoca raramente coincide con i limiti temporali del calendario, l’Ottocento non fa differenza. Esso inizia con la presenza in Europa dell’impero napoleonico, nato dalla Rivoluzione e dal Neoclassicismo. E il primo movimento culturale e politico che incontriamo anche in Italia, ma esso prende avvio molto prima.
Per comprenderne l’origine e lo sviluppo è dunque necessario accennare brevemente alla storia del 700 in Francia.
Il Settecento in Francia
La tendenza al monumentale, al solenne, al patetico scompare già col primo Rococò, per lasciare posto ad un gusto del leggiadro e dell’intimo. Il colore e la sfumatura prevalgono fin dall’inizio sulla linea grandiosa, salda, obiettiva, del Barocco e la nota della sensualità e del sentimento è d’ora in poi sempre presente. Il Rococò è arte dell’aristocrazia e dell’alta borghesia come il Barocco lo fu della monarchia.
Il tema della pastorale
Si sviluppò il tema caratteristico del 700, quello pastorale. L’Arcadia fu sempre concepita come fuga dal gran mondo e dagl’obblighi di Corte, un sogno poetico in cui godere dei vantaggi di una vita civile senza dover ottemperare ai suoi vincoli. Da sempre ogni civiltà complessa e raffinata ne ha fatto per due millenni il simbolo di felicità e di libertà.
Tale desiderio nacque da una società troppo civile e sazia degli agi della corte e della città, non dal contatto e dal rapporto diretto con il popolo, ma da una visione romantica degli umili e da un sentimento derivato dalla natura. Il contadino ed il pastore non si entusiasmano certo né per la natura, né per il loro duro lavoro quotidiano, ma la poesia bucolica nata in epoca ellenistica resiste, da Teocrito (310-250 ac.) ai giorni nostri, ad ogni assalto della critica razionalista; mutando apparentemente di forma, ma continuando ad inculcarci l’ideale di una vita più sana, più naturale, più felice.
Di fronte a dame e raffinati cavalieri travestiti da contadini, che discutono civettualmente d’amore, non viene certo in mente a nessuno la semplicità del popolo. L’Arcadia perde ogni contatto con il reale e serve solo a mascherare la realtà della vita concreta, essa non è altro che una nuova forma giocosa dell’arte erotica.
Aristocrazia, borghesia e popolo
Si formavano due grandi gruppi con le stesse abitudini, gusto e linguaggio: il popolo, e chi gli stava sopra. L’aristocrazia e l’alta borghesia si fusero in un unico ceto depositario della cultura.
L’attività edilizia dal re e dallo stato passò ai privati, prevale il gusto borghese per le piccole dimensioni, perciò si sostituisce al Barocco massiccio, statuario e corposo un’arte decorativa virtuosistica, delicata e nervosa.
Paragonata all’arte barocca sfrenata, soverchiante e tumultuosa quella rococò appare più debole, minuta e gretta, ma anche più leggiadra. Il Rococò disgregando il classicismo del Barocco preparò il terreno all’arte della borghesia, con la sua sensibilità al pittoresco e la sua tecnica già impressionistica. Le precedenti antitesi furono sostituite dalla scelta attuale tra preferire l’intelletto e la conoscenza razionale od il sentimento e l’intuizione. Si approntava il terreno culturale per i due grandi movimenti che influenzeranno anche il secolo successivo: l’Illuminismo degli enciclopedisti ed il sentimentalismo dei romantici, che con il mito del buon selvaggio mutava l’appello arcadico ponendo al centro l’uomo con i suoi istinti irrazionali.
Organizzazione del lavoro
Diversi fattori stavano contribuendo all’allentamento dell’organizzazione del lavoro nelle corporazioni. Per diritto feudale il faubourg St. Antoine ed alcuni altri luoghi eclesiastici erano esentati dagli obblighi corporativi e vi potevano lavorare anche artigiani privi di maîtrise (titolo attribuito dalle corporazioni ai propri membri, che solo permetteva di commerciare pubblicamente la propria produzione, assoggettandola all’obbligo di apporre la propria stampigliatura). Anche i lavoratori stranieri potevano lavorarvi, ma con l’obbligo di vendere i loro prodotti tramite mercanti e maestri autorizzati. Inoltre il re poteva accordare privilegi, che pure esoneravano da molti di tali obblighi, come quello di usare per le diverse lavorazioni solo operai iscritti alle corporazioni d’appartenenza, e spesso dal pagamento stesso delle tasse; per tale motivo gli arredi prodotti da questi artigiani presentano spesso una più perfetta armonia ed unitaria concezione.
Emergere della borghesia, la cultura e l’arte
Contro la tradizione del Barocco e del Rococò ci si mosse da due direzioni: da una parte Rousseau (1712-1778), Richardson (1689-1761), Hogart (1697- 1764) e Jean-Baptiste Greuze (1725-1805) con il naturalismo ed il sentimentalismo; dall’altra con il classicismo ed il razionalismoAnton Raphael Mengs (1728-1779), Jacques-Louis David (1748-1825), Johann Winckelmann (1717-1768) e Karl Lessing. Queste correnti propongono un’ideale di semplicità puritana in contrapposizione al fasto aulico della tradizione. Esso sopravviveva in Francia più a lungo che in Inghilterra, ma verso la fine del secolo ormai è dominante in Europa l’arte borghese, divisa in progressista ed in conservatrice, ma non esistette più un arte viva in sostegno degli ideali e delle ambizioni della corte e dell’aristocrazia. Raramente si è verificato un tale capovolgimento, che portò la borghesia a sostituire la nobiltà nell’egemonia culturale ed artistica e parallelamente al cambiamento radicale del gusto con il passaggio dalla decorazione all’espressione. Nella seconda metà del 700 vi fu uno sviluppo senza precedenti, prosperarono i commerci e le industrie, enormi somme passarono di mano tra imprenditori e speculatori. Non solo i grandi banchieri e gli appaltatori iniziarono a gareggiare in splendore con la nobiltà, ma anche la media borghesia partecipò sempre più largamente alla vita culturale. La borghesia si impossessò della cultura. Oltre a scrivere i libri e dipingere i quadri li comprava. Essa divenne la classe colta depositaria della cultura, la principale lettrice di Voltaire (Arouet François-Marie, detto) e di Jean-Jacques Rousseau. Il più grande collezionista del tempo è Antoine Crozat figlio di una famiglia di mercanti.
L’arte diventa più accessibile
L’Accademia pretendeva, come nella teoria politica la monarchia assoluta, di proporre l’ideale classico come eterno ed immutabile, derivato da Dio stesso. Criticandola l’Arte perde la maiuscola e si propone ai comuni mortali, divenendo più accessibile, meno pretenziosa. Il paesaggio eroico viene sostituito da quello pastorale idilliaco; il ritratto perde il connotato di opera destinata al pubblico per diventare domestico, per uso privato. Il quadro storico e quello sacro perdono terreno. Charles Maurice Talleyrand disse: “Chi non ha vissuto prima del 1789 non conosce la dolcezza della vita” con ciò alludeva non solo all’ideale edonistico, ma soprattutto alla dolcezza delle donne, l’amore aveva perso sia la sua natura istintiva che quella passionale per diventare raffinato, divertente, trasformandosi da passione in abitudine.
Si raffiguravano ovunque nudi, che diventano il tema preferito dell’arte. Negli affreschi, sugli arazzi dei salotti, nelle incisioni dei libri, dai bronzi alle porcellane non si vedono che seni, braccia, fianchi e gambe intrecciate in tutte le pose. L’ideale stesso di bellezza femminile muta, nell’età barocca la donna è matura ed opulenta, ora si preferiscono tenere giovinette ancora bambine. François Boucher fece della “pittura dei seni e dei culi” uno stile nazionale trasferendo anche nelle incisioni ed in tutta l’arte minore motivi prettamente erotici. La donna nel suo pieno rigoglio riconquisterà il suo posto nell’arte con il romanticismo di Thèodore Géricault ed il classicismo di Jacques-Louis David, con il trionfo della media borghesia.
Si raffiguravano ovunque nudi, che diventano il tema preferito dell’arte. Negli affreschi, sugli arazzi dei salotti, nelle incisioni dei libri, dai bronzi alle porcellane non si vedono che seni, braccia, fianchi e gambe intrecciate in tutte le pose. L’ideale stesso di bellezza femminile muta, nell’età barocca la donna è matura ed opulenta, ora si preferiscono tenere giovinette ancora bambine. François Boucher fece della “pittura dei seni e dei culi” uno stile nazionale trasferendo anche nelle incisioni ed in tutta l’arte minore motivi prettamente erotici. La donna nel suo pieno rigoglio riconquisterà il suo posto nell’arte con il romanticismo di Thèodore Géricault ed il classicismo di Jacques-Louis David, con il trionfo della media borghesia.
Dopo il Rococò non vi sarà più un canone formale di validità universale e l’artista dovrà autonomamente conquistare un suo stile personale. Nella seconda metà del XVIII° secolo sorse la moderna borghesia, che imporrà all’arte la sua concessione individualista, in una continua ricerca dell’originalità, sostituendo all’idea di stile consapevolmente condiviso in una comune visione di valori, il concetto moderno di “proprietà culturale”. È la fine della teoria dell’art pour l’art a favore del nascente romanticismo e realismo.
Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) vide giustamente in Jean-Baptiste Greuze (1725-1805) il propagandista politico dei nuovi ideali, il creatore di quella idea stereotipata del popolo e dei suoi costumi morigerati, con l’apoteosi della famiglia borghese, e di quella pittura aneddotistica fonte dei cattivi prodotti dell’ottocento. Contemporaneamente a lui Jean-Baptiste-Siméon Chardin dipinse in maniera più schietta ed onesta quadri permeati da una modestia borghese, che sono tra il meglio dell’arte del settecento, superando la visione tutto sommato aristocratica di Jean-Baptiste Greuze, piena dei luoghi comuni tipici dei ceti superiori nella critica alla borghesia, preparando il campo ai valori della rivoluzione.
Il Settecento in Germania
Assai differente la situazione della Germania per tutto il Settecento a causa della generale arretratezza si determinò una situazione particolare che portò gran parte dei maggiori talenti ad emigrare in Francia od in Inghilterra. La corporazione imponeva da sei ad otto anni di apprendistato, da trascorrere in gran parte all’estero. La mancanza di scuole, fatta eccezione per la Scuola Reale gratuita di Disegno istituita alla metà del XVIII° secolo ed addirittura non riconosciuta in alcune parti della Germania, obbligava ad apprendere dalla sola osservazione del lavoro e dei prodotti degli altri artigiani. A questo si aggiunga che la produzione di un capodopera, costituente la prova d’esame d’ammissione alla corporazione, era costituito quasi sempre da un arredo tanto costoso quanto superato, fuori moda e praticamente invendibile, che risultava troppo oneroso per un giovane apprendista. Per proteggere il mercato locale solo i figli ed i nipoti di maestri residenti potevano, a prezzo di pesanti tasse, evitare tale apprendistato. Solo con l’emigrazione si poteva sperare di veder riconosciuta la propria abilità, magari sposando la vedova o meglio la figlia di un maestro, il che faceva sparire ogni impedimento. Ciò provocò un effetto secondario interessante, facendo espatriare i cattolici verso paesi cattolici ed i protestanti verso i loro confratelli; fatto, che contribuì a trasmettere una certa identità di stile in aree omogenee. Le ferree regole della corporazione imponevano ad ogni maestro di tenere solo due compagnons (aiuti, lavoranti) e di escludere dalla Gilda quelli che si maritassero o facessero il servizio di leva nell’esercito. Per contro chi rispettava le regole godeva di alcuni diritti. Tutti i maestri erano obbligati ad offrire lavoro ai compagnons erranti ed agl’altri apprendisti. Costoro, organizzati in confraternite, alloggiavano in ostelli ed erano tenuti a dimostrarsi amichevoli e solidali. Sotto la sorveglianza di un anziano essi dovevano vigilare vicendevolmente la tenuta di un comportamento morigerato e comminare multe agl’inosservanti, soprattutto per ebbrezza e volgarità.
Nei decreti emanati dall’autorità sull’itineranza sono spesso citate quali mete: Berlino, per la vicinanza del grande mercato russo e dove esisteva una gilda dei fabbricanti di sedie all’inglese, tanto in voga ai tempi di Johann Wolfgang Goethe da doversi dare la patente d’inglese a ciò che si considerava alla moda; Neuwied, ove era stabilito il grande laboratorio di Jacques-Louis David Roentgen; e Vienna. Londra e Parigi con il loro milione d’abitanti costituivano un grande mercato ed in più erano già piene di colonie di tedeschi; artisti, prelati, aristocratici ed artigiani famosi.
Il Settecento in Inghilterra
L’Inghilterra già nel settecento era una nazione moderna nella quale i cittadini godevano di una libertà personale sconosciuta altrove, le distinzioni di classe ed i privilegi sociali erano legati al possesso della terra e non come nel resto d’Europa a mistici diritti di sangue. Il Parlamento rappresentava il conflitto tra i due blocchi contrapposti: la corona ed i nobili da una parte, il ceto d’impronta capitalista dall’altra. Un terzo gruppo composto dai piccoli imprenditori, dai contadini e dai salariati non trovava ancora rappresentanza. La trasmissione del titolo di Lord esclusivamente al primogenito unificava i cadetti al resto della gentry, creando una distinzione verso il basso, determinata da un comune orientamento ideologico e livello culturale, che possiamo raccogliere nel termine di gentleman. Ciò spiega in una certa misura come il passaggio dall’aristocratico Rococò al Romanticismo borghese avvenisse qui in maniera relativamente indolore.
Con la costituzione di un pubblico di lettori stabile e relativamente ampio si verificò un certo qual livellamento culturale, che rese omogeneo questo insieme di soggetti.
La rivoluzione industriale, la creazione del pubblico.
L’importanza assunta dalla borghesia agiata determinò la nascita di tale pubblico, riuscendo a garantire una certa indipendenza economica agli scrittori, qui non più costretti a dipendere dal mecenatismo, che cessò verso la metà del secolo e dal 1780 non vi sarà più alcuno di essi, che necessitasse di appoggi privati. Il numero dei lettori crebbe alla metà del secolo, fra i ceti superiori già alla fine del settecento il leggere divenne un’abitudine necessaria ed il possedere libri tanto naturale quanto sarebbe sembrato strano all’inizio del secolo.Tale sviluppo fu favorito dal nascere dei periodici, che al principio del secolo costituiscono la grande novità in letteratura. La funzione dell’editore quale mediatore tra l’autore ed il pubblico si afferma insieme all’emancipazione del gusto borghese dai canoni aristocratici. Daniel Defoe, figlio di un macellaio, diede voce all’ottimismo della borghesia, descrivendo nel suo “Robinson Crusoe” il tipico rappresentante del ceto medio; solerte, volenteroso, inventivo e tenace, che realizza con le sue sole forze dal nulla il benessere e la sicurezza.
Si poté così sviluppare un’attività letteraria moderna in cui il rapporto dello scrittore con il pubblico è anonimo e corrisponde al principio borghese di libera circolazione delle merci; con la creazione di un nuovo soggetto il critico, che ha il compito di rappresentare il livello medio del gusto del lettore.
Precedentemente un’artista era tanto più rispettato quant’era alto il rango del suo protettore, ora lo è nella misura del suo successo. Nasce l’idea del genio artistico soggettivo ed originale con una sua personalità creatrice, che diviene l’attore della rivolta contro la costrizione delle rigide meccaniche regole dello spirito conservatore e convenzionale.
La rivoluzione industriale portò alle estreme conseguenze la divisione del lavoro già preesistente e con la meccanizzazione e la razionalizzazione dei metodi produttivi rese definitiva la divisione tra lavoro e capitale. Il capitalista si formò una nuova etica legata all’impresa, mentre il lavoratore smarrì il proprio senso etico del lavoro, perdendo le antiche distinzioni di mestiere. Contadini inurbati, artigiani, uomini donne e fanciulli diventarono tutti semplici manovali all’interno di un’industria meccanizzata regolata rigidamente.
La vita rurale e la ricchezza basata sul possesso terriero non avevano conosciuto in pratica la speculazione ed il rischio relativo all’investimento di capitali, anche nella finanza e nel commercio il generale atteggiamento era relativamente cauto. Lentamente quanto inesorabilmente la nuova industria spinse ad investimenti sempre più ingenti ed al capitale si aggiunse la definizione “di rischio”, obbligando gli imprenditori ad esporsi per somme troppo elevate. Pur nella generale prosperità si generò un sentimento di ansietà contrario ad un facile ottimismo. A causa del rischio connaturato in tale attività non può essere posto nessun vincolo alla libertà di movimento dell’imprenditore, nessun freno statale, che ne comprometta la concorrenza sul mercato. La rivoluzione industriale consistette essenzialmente nella vittoria di tali principi sull’antico ordinamento medievale e mercantilistico. L’economia moderna cominciò con il principio del lassez-faire e con esso si affermò l’ideologia del Liberismo, cui solo era possibile collegare l’idea della libertà individuale. L’artista reagì al principio della libera concorrenza esprimendo i propri affetti, affermando la sua personalità, partecipando al lettore l’intimo dissidio tra l’anima e la coscienza e risolvendo con un romanticismo programmaticamente individualista il suo desiderio di ribellione alla spersonalizzazione, esasperata dalla divisione del lavoro.-La borghesia usò l’austerità del costume contro la mentalità di corte, cui rimprovera la frivolezza e la propensione allo spreco, di cui altri facevano le spese.
Nel romanzo il romanticismo ricerca l’effetto immediato teso a stupire, da questa necessità nacque il romanzo storico ed i primi racconti paurosi pieni di atmosfere misteriose e di pathos a buon mercato. Un’opera per risultare efficace doveva svolgersi in un continuo crescendo, per impressionare doveva essere un dramma continuo e completo, anche se suddiviso in tanti piccoli drammi, ognuno con il suo finale. Il livello culturale si abbassò e l’Ottocento difetterà di quel gusto sicuro ed equilibrato proprio del Rococò e dell’arte aulica. Jean-Jacques Rousseau influenzò quasi tutti i pensatori del settecento, un influsso di tali proporzioni fu possibile solo perché egli fu la vera espressione ed il più profondo interprete delle inquietudini del suo tempo. Fu il primo vero ribelle. Senza la sua concezione di un presente depravato non sarebbe stato possibile il romanzo ottocentesco della delusione, senza il suo pessimismo storico-filosofico non ci sarebbe stata la concezione tragica di Heinrich Kleist o di Johann Christoph Friedrich Schiller.
Lo sviluppo della musica.
Soprattutto nella musica l’influenza di Jean-Jacqes Rousseau fu tale da determinare un mutamento forte ed improvviso come in nessun altro campo. Alla generazione di Johann Sebastian Bach se ne contrappose una nuova, cui la fuga sembrò forma antiquata. La musica antica, con la trattazione uniforme del contenuto emotivo con la sua forma rigida e solenne ed il pesante contrappunto, appariva dominata e moderata. La nuova musica prese ad esempio le idee di semplicità, intimità ed immediatezza, con una forma accentrata, a sviluppo drammatico, con una ascesa, un acme e possibilmente un conflitto ed una soluzione, contrapponendosi alla ricerca dell’effetto costante equamente distribuito nella composizione. I borghesi avevano conosciuto la musica solo nelle rare occasioni di balli, alle feste religiose od in chiesa. Durante il Settecento si costituirono società che daranno concerti a pagamento per un pubblico sempre più numeroso. Si formò così un mercato libero, corrispondente a quello letterario con i suoi editori, i periodici ed i giornali. Il pubblico, che pagava di volta in volta, andava conquistato continuamente ed è per ottenere il successo che si fu costretti a moltiplicare gli effetti ed a renderli sempre più forzati, fino a determinare lo stile carico ed intenso, che caratterizzò la musica dell’ottocento. L’affrancamento del compositore dal committente segnò il passaggio tra l’opera scritta su ordinazione destinata ad un rapido oblio, spesso dopo una sola esecuzione, e la creazione imperitura. Franz Joseph Haydin scrisse quasi cento sinfonie, Wolfgang Amadeus Mozart la metà e Ludwing Beethoven soltanto nove, per quest’ultimo ogni composizione non è solo il frutto di un idea nuova, ma segna anche una nuova tappa nella sua evoluzione artistica. La principale fonte di guadagno divenne la vendita delle opere per le ripetute esecuzioni nei concerti. L’idea dell’opera unica irrepetibile ed inconfondibile si attua nella musica ancor più che nella pittura.
Il romanzo borghese
Il romanzo borghese di soggetto familiare aveva costituito una novità assoluta, ma è nel dramma che assistiamo ad un completo rivolgimento. Questo genere artistico costituì una vera e propria arma nella lotta contro l’ancien regime. Dapprima spogliò le virtù eroiche dell’aristocrazia della loro concezione di carattere assoluto, sostituendole con quelle borghesi della parità dei diritti, della democrazia e della nuova morale, poi introdusse quale argomento centrale il conflitto sociale ed una visione naturalistica della realtà. Nasceva l’unione tra radicalismo e realismo-naturismo propria di tutto l’Ottocento. L’eroe diventa una specie di superuomo giustificato nella sua azione dalle cause naturali che la determinano, egli vince anche quando soccombe e supera il destino avverso, è un ribelle militante. La morale diviene relativistica, il povero è ladro ed assassino, ma non per sua colpa, così lo hanno fatto i privilegi e l’oppressione dei ricchi. Quest’arte letteraria si trasformò lentamente da strumento della rivoluzione borghese in uno dei suoi maggiori elementi di critica, il ribelle non agisce solo contro l’ordine costituito, ma contro ogni potente. Nella lotta contro il destino vengono via via messi in discussione tutti i pilastri della morale borghese e la sua pretesa di incarnare una morale universalmente valida.
La letteratura diventò un fatto comune a tutta l’Europa. Nel medioevo il latino aveva costituito la base della sua universalità, come durante il Barocco ed il Rococò lo era stato il francese, ora nasce il nuovo concetto di concerto di voci diverse, secondo ad esempio la visuale di Johann Wolfgang Goethe. La teoria e la pratica di una letteratura universale si determinarono su quelle dei fini e dei metodi del commercio mondiale.
L’evoluzione dello stile nei grandi centri e in quelli minori
Prima di trattare da vicino l’evoluzione degli stili dell’Ottocento è necessario porre alcune distinzioni e precisazioni di metodo. In questo secolo assistiamo all’affermazione della borghesia, tuttavia dal punto di vista della storia dell’arte permane una netta distinzione tra la committenza importante e quella minore; è senz’altro la prima, costituendo la parte più consistente del mercato, che continua a determinare l’evoluzione artistica. Solo dal 1830 i redditi pro capite iniziarono a registrare aumenti sempre più accelerati ed insieme all’accresciuta produzione industriale sposteranno lentamente l’ago della bilancia, fino a giungere ai giorni nostri alla preponderante influenza di un pubblico di massa, con l’affermazione definitiva del concetto di design. Bisogna sempre distinguere tra i manufatti del primo tipo, eseguiti dagli artigiani più abili ed affermati con materiali costosi e puntualmente ispirati alla moda del momento e gli altri, prodotti poveramente da artigiani minori con lunghe sopravvivenze di stili ormai sorpassati. Da sempre un’abile artigiano lavora per chi lo può più pagare, trasferendosi, finché lo sviluppo dei trasporti e delle tecniche di commercializzazione non hanno permesso una distribuzione differente, ove la produzione richiede il meglio, sempre che non gli sia impedito dalla presenza di qualche tipo di vincolo. I meno abili debbono forzatamente accontentarsi di un mercato adeguato alle loro capacità. Tutto ciò si riflette nella marcata differenza dei loro prodotti. Il termine ebanisti nasce nel Seicento, allorquando le corporazioni parigine segnano una rigida distinzione tra questi, cui solo è consentito l’utilizzo di materiali rari e costosi, dei quali il più impiegato allora era per l’appunto l’ebano, ed i falegnami destinati alla produzione corrente con l’utilizzo di legni poveri locali, spesso forniti dallo stesso committente, che era spesso anche il proprietario del bosco.
La bottega dell’ebanista dispone di tutta una serie di lavoranti destinati all’esecuzione delle varie fasi costruttive, spesso a loro volta iscritti alle proprie corporazioni; Jean-Baptiste Gilles Youf nel suo laboratorio di Lucca, impiantato al seguito di Elisa Baciocchi, disponeva di circa 170 lavoranti. Ben diversa la composizione della modesta bottega di campagna o collocata in un area impoverita e costretta ad ispirarsi ed imitare gli stili che con molto ritardo giungevano dai centri più importanti, con l’utilizzo di materiali locali a basso costo e tecniche decisamente meno raffinate. Di certo segare un’asse dello spessore di qualche centimetro richiede minor abilità che segare un’impiallacciatura vicina al millimetro e minor investimento il maneggiare una sega personalmente, che utilizzare manodopera specializzata nell’uso di una sega a più lame. Egualmente il legname esotico d’importazione, che giungeva prevalentemente dalle americhe dopo un lungo e periglioso trasporto su veliero, costituiva un genere di lusso, in grado di far lievitare enormemente il prezzo, insieme ai bronzi dorati ed agl’altri materiali preziosi.
Evoluzione dei prezzi
Un valido esempio può essere costituito dal raffronto dei prezzi fatturati in varie epoche. Alla fine del 600 un tavolo di noce costava 10 lire francesi; un bureaux di noce 80; una scrivania alla Mazzarino, intarsiata con rame e stagno, 200; le comode eseguite da Boulle per il Trianon a Versailles, in ebano intarsiato e bronzi dorati, tra le 1000 e le 1500; si giungeva per pezzi straordinari, come i cabinets eseguiti da Gucci per i Gobelins, alla astronomica cifra di 30500. Si pensi che un pasto in una locanda economica costava 5 soldi e un posto letto 1 soldo (una lira era pari a 20 soldi), ed il salario giornaliero di un operaio specializzato era di circa 15 soldi. Analogamente alla fine del 700 si passava dalle 60 lire per uno scrittoio di noce alle 200 per una comode in legno satin. Anche i laboratori più prestigiosi dovevano ricorrere agli anticipi di danaro per l’acquisto dei materiali sia direttamente dal committente, che dal marchand-mercier (letteralmente commerciante tappezziere, già il nome indica la potenza economica di chi poteva commerciare le stoffe). Ciò valeva per l’ebanista francese, come per quello italiano. A Milano viene pubblicato nel 1822 il manuale “Segreti diversi concernenti le arti e i mestieri” contenente svariate ricette per la tintura dei legni, ampiamente estratto dal più celebre “Chimie appliquée aux arts”. E se il Giuseppe Maggiolini tingeva i legni per creare una tavolozza ancora più ampia dell’ottantina di essenze naturali che già impiegava, nel 1850 nel laboratorio dei Luigi Falcini si tingevano le essenze per risparmiare, non potendosene permettere gli alti costi per i mobili prodotti autonomamente, senza committenza. All’inizio dell’Ottocento la mano d’opera incideva in misura molto inferiore rispetto ai materiali alla formazione del prezzo, la stessa comode di mogano valeva 300 o 600 franchi a seconda che le modanature fossero o no rivestite di bronzo dorato. Mobili di estremo lusso come quelli di porcellana potevano costare anche 10000 lire. Nel 1855 L’imperatrice Eugenia acquistò all’esposizione universale di Parigi una toilette monumentale per 8000 franchi. D’altronde alla fine del secolo si poteva comprare in Italia una camera da letto completa impellicciata con 300 lire. Altra notevole fonte di spesa era costituita dalle tappezzerie, il cui costo spesso superava quello degli arredi; l’ambiente più costoso risultava essere la camera da letto, ove l’impiego di stoffe era maggiore, essendo utilizzata come luogo di ricevimento a fini di rappresentanza almeno fino al 1820.
Per descrivere l’evoluzione stilistica è dunque giocoforza tenere in considerazione principalmente la produzione ebanistica, trascurando quella minore; senza tener conto delle attuali valutazioni del mercato a volte insensatamente superiori per oggetti di scarso valore artistico. Sono tali mobili significativi , che determinano comunque nel tempo la reale tendenza del mercato, anche se oggi le fluttuazioni della moda possono temporaneamente spingere il prezzo di arredi modesti oltre il loro reale valore storico ed artistico. E sempre preferibile, quando possibile, orientare la scelta verso mobilia, che comporti l’impiego di materiali rari e preziosi, uniti ad una esecuzione virtuosa, tali elementi non solo ci illustrano la qualità dell’arredo, ma costituiscono il migliore filtro per facili contraffazioni, rendendosi decisamente difficile la falsificazione di materiali e di abilità oggi quasi scomparsi. Bisogna anche tener conto che le novità non generano direttamente la diffusione del gusto, e che quando appare un’innovazione essa risulta dapprima scioccante, poi lentamente si producono degli adattamenti, che spesso ne seguono la linea con realizzazioni meno eclatanti.
La nascita del neoclassicismo. Lo stile dell’Europa.
Johann Joachim Winckelmann (1717-1768) indicò nel disegno lineare, puro, nella “nobile semplicità e nella tranquilla grandezza” i dettami del nuovo stile, in contrasto soprattutto con il vuoto virtuosismo, la finzione e l’artificialità del Rococò, contro il gusto sensuale e capriccioso per cercare un valore spirituale dell’arte. Per la prima volta il passato non fu esaminato con il gusto dell’arte contemporanea, ma si vollero indicare in esso i dettami con cui giudicare l’arte del presente. Bisognava rivolgersi all’antico, che appare come una ineguagliabile primavera artistica della umanità, scomparsa come “lo stato di natura” di Jean-JacquesRousseau. Tutti i preromantici tedeschi da Gotthold Efram Lessing, a Herder, a Johann Wolfgang Goethe condividono queste idee e vedono nell’antico la fonte di rinnovamento a cui attingere, l’esempio di una umanità perfetta, per sempre scomparsa.
Così per Georg Wulhelm Friedrich Hegel “La contemplazione dell’ideale classico aveva condotto Winckelmann, come per una sorta d’ispirazione, a rivelare un nuovo significato sugli studi sull’arte che egli sottrasse ai pregiudizi banali ed al pregiudizio dell’imitazione. Egli sottolineò con vigore la necessità di ricercare il vero concetto dell’arte nella storia e nei suoi capolavori.” Johann Wolfgang Goethe così descrive nel “Viaggio in Italia” Lady Hamilton’s: “abbigliata alla greca, con un costume che la veste mirabilmente; ella poi si scioglie le chiome, servendosi d’un paio di scialli, continua a mutare posa, gesti, espressioni…
Ciò che avrebbero aspirato a creare tante migliaia d’artisti lo vediamo come realtà in moto” la stessa atmosfera rareffata, sospesa nel tempo c’è consegnata da questo quadretto.
L’antico divenne ispirazione per la vita quotidiana e nel 1788 la pittrice Elisabeth Vigée-Lebrun, un anno prima della rivoluzione e del suo esilio, tenne nella sua casa di Parigi una cena greca, il famoso “super grec”, in cui abbigliò ed acconciò i commensali alla greca e servì piatti greci in autentico vasellame antico. Pochi anni più tardi durante una festa rivoluzionaria, adagiata su di un triclinio nuda, per tre giorni la moglie di un tappezziere rappresenterà sulla scalinata del Sacre Cœur la dea ragione; nella stesa posa in cui Canova raffigurerà Paolina come Venere Vincitrice.
La classicità era stata interpretata dall’umanesimo rinascimentale in senso antiscolastico ed anticlericale, dal Settecento secondo il punto di vista dell’etica dell’assolutismo monarchico. La borghesia progressista legò il proprio classicismo rivoluzionario all’ideale stoico e repubblicano al punto di rimanervi fedele in tutte le sue manifestazioni. Alla vigilia della rivoluzione erano presenti in Francia diverse tendenze artistiche, il Rococò ancora attivo in Jean-Honoré Fragonard con la sua arte coloristica e sensuale, il naturalismo proprio di Jean-Baptiste-Siméon Chardin, Jean-Baptiste Greuze con il suo sentimentalismo stereotipo e l’evidente classicismo di Joseph-Marie Vien.
L’alta borghesia consolidandosi aveva svuotato a tal punto l’ideale moralità borghese da diventare una delle principali sostenitrici della cultura Rococò, prestando il fianco ai critici del potere comunque esercitato. La Rivoluzione scelse il neoclassicismo perché esso costituiva il migliore strumento politico, vedendo in esso rappresentati quei valori che gli erano propri: l’eroismo e l’abnegazione, lo stoicismo, il rigore spartano, l’amor di Patria e per la libertà. Il successo del quadro di Jacques-Louis David “Il giuramento degli Orazi” segnò con l’esposizione al Salon del 1785 la fine di un trentennio di contrapposizioni ed il definitivo affermarsi del nuovo stile. David affermò il proprio classicismo esprimendolo in un linearismo puro, privo di effetti sensualmente pittorici.
Riduzione all’essenziale, precisione, obbiettività ed energia spirituale riuscirono ad esprimere l’adesione allo stoicismo rivoluzionario ed a rappresentare l’ideale stilistico del tempo. Come “l’ultima cena” rappresenta con Leonardo l’estetica del rinascimento, così gli Orazi sono stati giustamente definiti “il quadro neoclassico per eccellenza”. Con “il Bruto”, esposto al salon dell’89, si realizzò l’adesione formale alla rivoluzione, che segnò il punto massimo della fama di Jacques-Louis David. Nel quadro si riconosce in pieno la situazione della Francia assediata da ogni parte da un’Europa, che in essa combatte la Rivoluzione. La storia di Bruto disposto a condannare i figli per avere cospirato contro la Repubblica assurge a simbolo di ogni virtù civile. L’amore per tali virtù e ben espresso dal soggetto della pendola in cui è rappresentato nell’88 a.c. Gaio Mario, condottiero responsabile della creazione del moderno esercito professionale romano. Lo vediamo seduto sulle rovine di Cartagine distrutta una sessantina d’anni prima, ove era stato costretto a rifugiarsi, pur di non rinunciare ai suoi ideali, in seguito al contrasto per il potere con Lucio Cornelio Silla.
Il 1789 è anche l’anno dei grandi giuramenti: quello della Pallacorda, George Washington alla costituzione americana, e tanti altri seguirono negli anni seguenti. Il giuramento è un atto sacrale, patto tra uomini, che impegna per la vita, fonte di nuova sovranità opposta a quella antica del diritto divino.
Complementare all’opera di Jacques-Louis David quella di Pierre Paul Proud’hon si caratterizza per un diverso angolo d’osservazione. Nel primo prevale l’anima marziale, maschia e severa, nell’altro un’indole di un eleganza più frivola e femminea.
Questa dicotomia è rilevabile un po’ in tutta l’arte dell’Impero, in cui possiamo distinguere tra ambienti ed arredi con un’impostazione del primo tipo ed altri con quella del secondo.
Napoleone è l’ultimo sovrano per la cui glorificazione fu elaborato uno stile condiviso dalla corte e dalla società. Neoclassicismo ed Impero sono stili sopranazionali, che anche prima dell’unificazione in un unico dominio politico costituirono la base comune della cultura occidentale. L’editore della celebre “Recueil” di Percier e Fontaine e di “Voyage dans la Basse et la Haute Egypte, pendant les campagnes du Général Bonaparte”, La Mésangère, aggiunse dal 1802 un supplemento al “Journal des Dames et des modes” intitolato “Collection de Meubles et Objets de Goûts”, che molto valse a diffondere lo stile Impero nell’arredamento. In Inghilterra Thomas Hope pubblica nel 1807 ” Household Furniture and Interior Decoration”. Queste e le altre principali pubblicazioni dell’epoca erano perfettamente conosciute dagl’artisti europei del tempo e costituirono la base di un sentire comune.
Il neoclassicismo in Italia.
In Italia il panorama culturale non muta, anche qui l’inizio del secolo vede tutto un fervore di iniziative editoriali, anche se meno aggiornate di quelle inglesi e francesi. A Firenze si era stampato tra il 1796 ed il 1798 il “Magazzino di mobilia”; a Milano “ dal 1806 i disegni degl’allievi della scuola di ornato dell’Accademia di Brera; nel 1805 il “Corso elementare di ornamenti architettonici ideato e disegnato ad uso dei principianti” di Ferdinando Albertolli; nel 1811 “Invenzioni diverse di mobili ed utensili sacri e profani” di Pietro Ruga; nel 1825 “Raccolta di vasi antichi, Candelabri, Tripodi, Sarcofagi, Lucerne, Altari, Cippi, ecc.” di Donato Vaselli tratte dal Piranesi; nel 1827 di Giovanni Magazzari “Raccolta de’più scelti ornati sparsi per la città di Bologna”; sempre a Bologna nel 1827 di Antonio Basoli “Compartimenti di camere per uso degli Amatori e Studenti delle Belle Arti”. In tutte queste pubblicazioni il gusto prevalente è ancora quello Luigi XVI°.
Dal 1828 a Genova con la “Raccolta delle migliori fabbriche ed ornamenti della città di Genova” di Giuseppe Berlendis incominciano le pubblicazioni permeate del nuovo orientamento stilistico proprio dell’Impero, che vedono nel 1831 la prima organica esposizione nell’opera fondamentale del Giuseppe Borsato la “Opera Monumentale”; nel 1838 a Bologna, sempre del Antonio Basoli “Raccolta di diversi ornamenti per uso degli Amatori e Studiosi delle Belle Arti del Disegno atti a decorare Camere, Scene, Quadri storici, non che Mobiglie, Utensigli, ecc.”; del 1838 a Milano la “Collezione di soggetti ornamentali ed architettonici inventati e disegnati da Domenico Moglia”.
Il Moglia fu prima assistente di Ferdinando Albertolli poi professore aggiunto alla cattedra d’ornato all’Accademia di Brera. Egli applicò fino al 1852 un’ornamentazione complessivamente Impero, impostando una visione piranesiana diversa da quella delle altre Accademie, indirizzate allo studio della grottesca (a Firenze esisteva un apposito posto di Maestro di Grottesco). Dai suoi disegni certamente trasse ispirazione anche Pelagio Palagi quando, architetto di corte di Carlo Alberto, fece eseguire l’arredamento delle residenze sabaude. Come si vede in Italia si verificò un generale ritardo nella codificazione ufficiale del nuovo stile portato dalle corti napoleoniche, ne è riprova la pubblicazione a Venezia del Recueil di Percier et Fontaine avvenuta nel 1843, a distanza di quasi quarant’anni.
Dal 1808, grazie alla stabilizzazione del potere napoleonico, le corti satelliti dell’Impero iniziarono un generale ammodernamento con l’importazione di mobili da Parigi e con commissioni agli artigiani locali. Punto di forza delle manifatture toscane e romane era costituito dal commesso di marmi e pietre dure, che vide impiegare in epoca napoleonica fino a cento operai nelle sole officine dei fratelli Pisani a Firenze.
Altro merito di Roma, Firenze e Napoli fu il mosaico ed il micromosaico. Quest’ultimo fu ottenuto nel 1770 da Giacomo Raffaelli, che fondendo gli smalti opachi, creati dal 1731 per la Fabbrica di S. Pietro, realizzò sottili bacchette da cui trarre minutissime tessere. Dal 1787 il micromosaico fu utilizzato per i piani di mobili. Il micromosaico utilizzò ben 15000 colori. Il disegno delle colombe di Plinio rivenuto nel 1737 fu senz’altro quello più usato ed abusato. Il Gran Tour portava a Roma un gran numero di visitatori stranieri innamorati delle antichità classiche, che avevano l’abitudine di acquistare ricordi di viaggio.
Si svilupparono quindi tutta una serie di botteghe dedite alla riproduzione dei monumenti archeologici più famosi, eseguiti in ogni materiale dal bronzo, al marmo, al micromosaico. Questo comportò un generale rallentamento della produzione autonoma e della creatività artistica, che era stata il maggior pregio del secolo precedente.
A Bologna Carlo Filippo Aldrovandi fu senz’altro il principale protettore delle arti, plenipotenziario del regno d’Italia con studio personale a Fointenbleau, intraprendente mecenate cercò di far concorrenza alle terraglie di Wedgwood.
Queste all’inizio del secolo avevano invaso il mercato europeo con prodotti, che non richiedevano la stesura di una pittura di fondo grazie all’impasto di terre bianche, rendendole particolarmente economiche; determinando anche in Italia il declino di storiche manifatture. Egli istallò nel suo palazzo di via Galliera un laboratorio di ceramiche, in cui si sperimentarono varie miscele di terre e di fritte, non essendosi ancora rinvenuti in Italia quei depositi di terre bianche, che vedranno poi lo sviluppo delle terraglie della zona di Bassano. L’Aldrovandi si fece edificare l’omonima villa, unico esempio di palazzo neoclassico ancora esistente a Bologna, ricorrendo anche all’opera di Pelagio Palagi
La scarsità di edifici neoclassici, fu in parte dovuta al fatto che le truppe francesi risiedevano in quel territorio e gravavano per il loro mantenimento sulle popolazioni locali. Analogamente a Ferrara erano di stanza gli austriaci ed anche quella città non partecipò all’edificazione significativa di palazzi neoclassici. Bologna era pervasa più che altrove da sentimenti giacobini, ricordiamo che qui fu promulgata la costituzione della Repubblica Cisalpina il 26 marzo 1797, prima in Italia, mai entrata ufficialmente in vigore per l’arrivo delle truppe francesi; e lo stesso anno adottato il tricolore. Essa fu la capitale della repubblica Cisalpina e sede dei tre Direttori, peraltro mai effettivamente entrati in carica, per i quali furono approntate le sale del palazzo comunale (recentemente aperte al pubblico ed in cui sono collocate alcune pendole di produzione francese, tra cui una identica a quella del carro di Ettore, con cui giustamente si apre il libro “Mobile Impero, il neoclassicismo tra Emilia e Lombardia”, Artioli editore).
Tappezzerie e carte da parati.
Nell’arredamento un posto di primaria importanza era costituito dalle tappezzerie ed in particolare dai tendaggi, si trattava non solo di una scelta di gusto, ma anche di un’esigenza pragmatica. Le vicende concitate di quei tempi portavano a preferire arredi eseguibili in tempi ristretti e facilmente modificabili. I colori preferiti erano il rosso, il giallo ed il verde, affiancati anche dal viola, blu , i toni del marrone e naturalmente il bianco. La tavolozza dei colori fino alla metà del secolo, quando furono scoperti i colori chimici nel 1859 da William Perkin che perfezionò la tintura all’anilina, era forzatamente limitata dagli alti costi dei pigmenti e degli estratti naturali; l’esercito utilizzò a lungo per le divise il colore rosso, che era particolarmente economico.
Una valida alternativa alle pitture parietali ed all’encausto era costituita dai papiers peints ottenuti imprimendo con matrici di legno fogli di carta.
Si trattava di una tecnica complessa, che richiedeva per ogni soggetto fino a 150 cliché. Fino alla fine del 700 i fogli disponibili erano quadrati di dimensione ridotta e dovevano essere incollati per ottenere strisce di una certa lunghezza, dal 1778 per standardizzare la produzione fu fissata la misura massima delle strisce in una larghezza di 54 centimetri ed una lunghezza di 10.80 metri. Le strisce stampate venivano composte una accanto all’altra secondo la tecnica chiamata “dominos” e poi rifinite a mano, sia nei punti di contatto, sia per dare particolari effetti luministici. La manifattura Zuber trovò il modo di produrre rotoli in continuo verso il 1830, mantenendo invariata la larghezza. Essi potevano essere dipinti a colori, come le splendide carte panoramiche, o a grisaille, cioè in bianco e varie tonalità di grigi, in Italia fu molto attiva la stamperia Remondini di Bassano.
Dopo il 1840 la stampa continua per mezzo di rulli porta ad una rapida espansione del settore, che nel 1860 contava solo a Parigi 300 manifatture; ben presto non ci sarà casa priva di mura ricoperte con carta da parati.
L’importanza del mogano, i bronzi dorati, i lamierini.
Dall’ultimo quarto del 700 l’ebanisteria elegge quale principe dei legni il mogano, nelle varietà di Cuba e delle Antille. l’Impero ne fece un’uso quasi esclusivo fino al blocco continentale, imposto da Napoleone all’Inghilterra il I° novembre 1806, che portò alla sua rarefazione in Europa. Il mogano costituiva una delle principali voci d’importazione, da quando alla fine del secolo precedente la Francia aveva perso quella parte di colonie dove esso cresceva e la Compagnia delle Indie ne era diventata monopolista.
Ciò comportò l’adozione di altre essenze esotiche o nazionali, che gettarono la base per il nuovo gusto dei legni chiari. Il mogano costituiva lo sfondo ideale per i magnifici bronzi dorati a fiamma e ove si ricorreva ad essenze locali come il noce od il ciliegio, per motivi di penuria del materiale o per abbassare i costi, si praticava abitualmente, fino alla metà del secolo, la tintura a finto mogano prima della lucidatura. Ne sono esempi significativi i rari esemplari che hanno conservato la loro patina originale come: a Roma la libreria di Carlo Ross e Giuseppe Spagna eseguita in ciliegio tinto mogano, su disegno di Giuseppe Valadier;
altrettanto tipiche le specchiere, come quella presente a palazzo Milzetti e come questa di gusto simile alle librerie eseguite per Paolina Bonaparte a Roma dal Valadier, tutte in noce tinto mogano, decorate con applicazioni in legno intagliato e dorato, che si richiamavano alle candelabre cinquecentesche; a Parma anche la duchessa Maria Luigia scelse per il palazzo ducale arredi in noce tinto mogano, eseguiti dai parmensi Giuseppe Musini e Giovanni Formentoni; a Firenze a palazzo Pitti gli arredi in ciliegio e noce, ora presenti nel colore naturale, sono descritti nei documenti d’epoca sempre tinti mogano. Tale tinta tende col tempo ad ossidarsi e nella maggior parte dei casi a scurirsi, insieme ad una recente dissennata passione per i legni locali, ciò ha portato i restauratori ad eliminarla sia dagli arredi di alta ebanisteria con bronzi dorati, sia da quelli più correnti con applicazioni dorate in legno od in pastiglia, rendendo molto rari gli esemplari in patina originale.
I bronzi cesellati e dorati a fiamma decorano ogni produzione importante e caratterizzano gli interni fino al 1830. Erano prodotti per oltre il 90 per cento a Parigi, dove esisteva un indotto in grado di occupare nelle sole fonderie artistiche oltre 9000 operai. In Italia esistevano centri di produzione nelle principali città ed in particolare a Napoli, Roma, Firenze ed a Milano; dove i fratelli Manfredini impiantarono su invito del viceré Eugenio Beauharnais una fonderia, presso la fontana dell’ex convento dei Paolotti, anche con lo scopo di insegnare l’arte del cesello e della doratura. Nelle regioni italiane sia per la sopravvivenza di una mobile tradizione dell’intaglio, sia per difficoltà di approvvigionamento, ma soprattutto a causa di una produzione provinciale priva di mezzi economici e spesso anche delle capacità tecniche ed artistiche, si utilizzarono spesso decori in legno intagliato ed in pastiglia dorati.
Lo stile carlo X
Lo stile Carlo X° ( Carlo X di borbone fratello di Luigi XVI, salito al trono di Francia dal 1824 al 1830)
Esso consiste nell’intarsiare a traforo con disegni eseguiti con essenze scure legni chiari. In Italia ebbe una qualche diffusione soprattutto in Piemonte sotto l’influenza dei lavori di Gabriele Capello e di Enrico Peters per Pelagio Palagi ed in Lombardia di quelli del Maffezzoli. E erroneo, anche se di moda, l’uso invalso di definire Carlo X° quanto genericamente prodotto nel secondo terzo dell’Ottocento. Ancor più sbagliata tale definizione quando riguarda arredi scuri intarsiati con disegni chiari, come quelli magnificamente eseguiti da Gorge Smith, dopo il 1830 a Napoli. La tecnica dell’intarsio a traforo produce ogni volta due intarsi utilizzabili, quello detto in première partie, costituito in questo caso dall’intarsio Carlo X ed il suo negativo, detto contre partie. La presenza nei laboratori di molti intarsi in contre partie inutilizzati — dopo la caduta di Carlo X, un po’ per reazione, ma inizialmente soprattutto per convenienza portò al loro utilizzo ed alla nascita di tali mobili scuri intarsiati in chiaro, da considerarsi a tutti gli effetti Luigi Filippo. Tipici quelli romagnoli detti gigliati.
Restaurazione e Luigi Filippo in Italia.
Felice Giani (1758-1823) fu il principale artefice del rinnovamento operatosi a Bologna e nelle Romagne durante i primi vent’anni dell’ottocento. Grazie alla sua scuola, cui si formarono i principali artisti, a partire dall’Impero si realizzò la decorazione interna dei principali palazzi dell’epoca. La committenza era talmente numerosa da non permettere l’esecuzione ad affresco, laboriosa ed anche costosa, e fu eseguita come nel caso che proponiamo direttamente a tempera.
Fra gl’incarichi più prestigiosi il Felice Giani fu incaricato tra l’altro della decorazione a Faenza di palazzo Milzetti; e sempre a lui si ispirarono gran parte degli arredi eseguiti nel secondo decennio del secolo, caratterizzati dalla laccatura bianca ed oro tipica di molti mobili da parata Impero eseguiti in Italia, meno costosi dei modelli in mogano e bronzi dorati alla stessa tipologia si ispira questo paliotto. E quelle già citate a pag. Come presidente dell’Accademia di Belle Arti sempre l’Aldrovandi sostenne l’opera di Antonio Basoli, che aggiunse alle classiche vedute a finte architetture il repertorio tratto dalle grottesche cinquecentesche, restando comunque vicino al Giovanni Piranesi più che alle nuove tendenze storiciste.
A Napoli con il ritorno dei Borboni si assiste all’adozione di mobili di gusto bidermeier, ben diversi da quelli eseguiti da Gioacchino Murat così tipicamente impero, che erano stati composti spesso con elementi di scavo, indice della forte tendenza archeologica precedente.A Torino dagl’anni venti assistiamo ad una lenta ricerca di affermazione delle proprie origini da parte dei Savoia, che puntarono ad arredare in stile Ancien régime le proprie residenze, incominciando da Palazzo Carignano destinato a Carlo Alberto e la sua sposa. Tuttavia sia il maestro dell’intaglio Giuseppe Maria Bonzanigo (1745-1820), sia quello dell’intarsio Giuseppe Maggiolini, non riuscirono ad aggiornarsi e restarono sempre più emarginati dalla moderna committenza borghese.
Vittorio Emanuele I° (1820-21) nei due anni di regno aveva cercato di restaurare la monarchia semplicemente tornando indietro all’arte classicheggiante, come se l’Impero non fosse esistito. Carlo Felice (1821-31) svilupperà il tema del ritorno in senso Revival, cercando nel gotico le origini profonde della dinastia. Carlo Alberto (1831-49) vide nello storicismo una scelta organica, in cui la necessità politica si inseriva ad uso risorgimentale ricreando un passato ricostruito filologicamente ed omogeneo stilisticamente, servendosi dell’opera di Pelagio Palagi, nominato architetto di Corte. Il Palagi si servì di abili artigiani tra cui spiccavano Gabriele Capello, detto il Moncalvo, maestro dell’intarsio e dell’intaglio, che nel 1863 impiegava nella propria impresa più di cento operai; ed Enrico Peters, che si era trasferito a Genova dall’Inghilterra nel 1817, impiantando uno dei più moderni laboratori in Italia con produzione aulica, ma anche borghese, sempre di esecuzione curatissima. La ricostruzione archeologica viene dal Palagi esercitata in maniera più naturalistica, meno fredda di quanto analogamente accadeva in Germania con Karl Friederich Schinkel e con Leo fon Klenze. L’impostazione di Palagi è ancora pienamente neoclassica, egli progetta insieme alle architetture anche gl’interni e gli arredi, disegnandone fin nei più minuti particolari i decori, coinvolgendo in una progettazione globale perfino i soprammobili (vedi il completo da camino del gabinetto etrusco al Castello di Racconigi ed il centrotavola in scagliola pubblicato a pag. 96 in “Mobili Impero” Artioli editore)
Le Esposizioni e le scuole.
Il programma di spese statali, unito alle esposizioni pubbliche (il primato in tal senso è italiano, la più antica esposizione è del 1788 a Genova) presso le varie Accademie dei prodotti artistici e delle manifatture, riuscì a vivificare ed a risollevare sia economicamente, che artisticamente la produzione italiana stremata dalle vicissitudini del periodo rivoluzionario. Tali esposizioni iniziano con quelle universali di Torino e di Milano del 1805, allestite in occasione dell’incoronazione di Napoleone a re d’Italia, seguendo l’esempio di quelle svoltesi a Parigi dal 1798. Seguiranno: a Milano, sempre a Brera, ogni anno fino al 1813, l’esposizione artistica organizzata dall’Accademia, e quella industriale dall’Istituto Nazionale; a Torino le edizioni del 1811 e del 1812; a Lucca annualmente dal 1808 al 1812. Milano diventò ben presto il centro ispiratore della diffusione in Italia di uno stile impero tipicamente influenzato dalla classicità, ma anche dal Rinascimento; in maniera ancor più accentuata dopo la fine del Regno d’Italia, grazie anche all’istituzione a Brera della Scuola di Ornato. Il governo austriaco, per unificare il mercato veneto e quello lombardo, allestì dal 1816 le mostre alternandole annualmente tra Milano e Venezia, ottenendo grande successo di pubblico. Nel 1843 la società d’Incoraggiamento d’Arti e Mestieri incominciò ad aprire scuole tecniche per artigiani separandone l’insegnamento da quello degli artisti. La necessità di approntare operai specializzati, adatti alle nuove produzioni industriali, portò nel 1857 alla definitiva divisione della Scuola di Ornato in un corso per gli ornatisti ed in uno per gli artieri, sancendo la divisione tra artisti ed artigiani. Il modello milanese fu ripreso con minor successo a Firenze nel 1838, 41, 44, a Napoli nel 1834 ed a Torino nel 1830, 32, 44. Altre scuole furono quella del Conservatorio d’Arti e Mestieri a Firenze, che dal 1811 prosegue l’insegnamento cominciato nel 1794 dal Conservatoire istituito da Elisa Baiocchi. L’istituzione nel 1816 dell’Accademia di Belle Arti da parte di Ferdinando III° a Siena. A Bologna, accorpata a Brera durante la Repubblica Cisalpina, nel 1809 i corsi di ornato vedono partecipare all’Accademia centocinquanta studenti, questo rilevante risultato fu anche merito del conte Carlo Filippo Aldrovandi, che ne fu preside dal 1807 e per vent’anni promosse lo sviluppo delle Arti Decorative; contro i pregiudizi che avevano considerato il lavoro artigianale inferiore alle Belle Arti. Durante i primi vent’anni della Restaurazione non assistiamo in Italia al nascere di quell’arte eclettica, già presente in Francia ed in Inghilterra, tipica dell’Ottocento, ma permangono i caratteri propri dello stile Impero stemperati lentamente dalla forte influenza del Biedermeier.
Il passaggio dal dal Neoclassico al Biedermeier
Il Romanticismo; Nazareni, Puristi, Preraffaeliti.
Il pittore Isabey eseguì nel 1816 una serie di acquarelli per la decorazione di un servizio di porcellana, destinazione che già chiarisce la tendenza del nascente Biedermeier a porre la casa al centro degl’interessi umani, sostituendo alla glorificazione di personaggi e battaglie quella dei valori domestici.
Qualsiasi mezzo può essere finalizzato alla diffusione di una comune cultura. In essi è ben indicato come era divisa una tipica giornata durante e subito dopo l’Impero napoleonico: dalle tre alle cinque il sonno, dalle cinque alle sette il risveglio, dalle sette alle nove il lavoro nello studio, dalle nove alle undici la colazione, dalle undici alle tredici le udienze, dalle tredici alle quindici la toilette, dalle quindici alle diciassette la passeggiata, dalle diciassette alle diciannove il pranzo, dalle diciannove alle ventuno le visite nel salotto, dalle ventuno alle ventitre lo spettacolo, dalle ventitre all’una la musica ed il tè, dall’una alle tre il ballo ed il gioco. Una vita precisa come un’orario ferroviario.
Jacques-Louis David fondò una scuola cui aderirono quasi tutti i giovani artisti, il suo successo non ebbe precedenti, la sua divenne, oltre l’esilio, fino alla monarchia di luglio, ”la scuola” per eccellenza di tutta la pittura europea. La sua adesione ai fini della propaganda politica fu totale e dimostra al di là di ogni dubbio che l’arte può essere grande anche quando si pone al servizio del potere. Sotto l’Impero egli si misurò con il grande quadro celebrativo raggiungendo ulteriori traguardi, ma incominciò a pagare il prezzo del distacco dal naturismo e dalla spontaneità, irrigidendo il suo sentimento del classicismo e cominciando a rivelare i segni di quell’accademia che riuscirà fatale alla sua scuola. Nel ritratto fu Jean-Antoine Gros il massimo pittore dell’impero, in esso egli riuscì ad esprimere a pieno l’immagine di uomini in cui gli ideali rivoluzionari sussistono quale fonte di coscienza energica ed eroica del proprio ruolo. Theodore Géricault fu tra i primi ad esprimere le inquietudini della sensibilità romantica, riuscendo però ad unire all’ansia dell’evasione, al morboso timore per il presente, la grandezza tragica, espressione patetica di una malinconia, che resta esaltazione della vita.
Nel chiostro di sant’Isidoro a Roma, ambiente scelto per abbandoni mistici e rievocazioni medievali, dal 1810 si riunirono alcuni tedeschi, che si contrapposero al neoclassicismo in nome di una nuova religiosità cattolica di tendenza primitivistica, fondata da Friedrich Overbeck nacque la setta dei Nazareni. Essi condividevano la stessa base ideale, con il rifiuto dell’arte rinascimentale e della forma grande, opulenta ed autonoma, per il ritorno all’arte preclassica, gotica, antecedente Raffaello.
In Italia tra il 1830 ed il 1840 nasce il movimento dei Puristi, cui aderì il pittore Tommaso Minardi (1787-1871), che sbocca nel 1843 nel “Manifesto dei Puristi”; anche Ingres simpatizzo per un breve periodo per i Primitivi. In Inghilterra nel 1848 si costituì la confraternita dei Preraffaeliti tra Dante Gabriele Rossetti, Wiliam Holman Hunt e John Everet Millais. I Preraffaeliti seppero unire allo spiritualismo vittoriano, ai soggetti storici religiosi, ai simboli fiabeschi una gioia del minuto particolare, nella gaia riproduzione di ogni stelo e di ogni piega delle vesti, una rara perizia tecnica, che comportò una sensazione di stilizzato e d’irreale.
Nel 1813 il Cicognara pubblicò il I° volume della:”Storia della scultura in Italia”, in cui si rigetta la definizione di barbara data all’arte medievale, si considera lo spirito di religione quale formatore di quell’arte, e si ribadisce, in opposizione al positivismo, che: “i risultati preziosi delle scienze restringono il genio delle arti e imbrigliano l’immaginazione.”
All’inizio dell’Ottocento l’opposizione romantica all’illuminismo, come alla rivoluzione, portò la borghesia a reagire contro quella che gli appariva sostanzialmente come una perdita del potere di controllo sull’arte, con l’elaborazione della teoria della “Art pour l’Art”. Il classicismo come il romanticismo trovarono entrambi lo spazio per la loro definitiva affermazione nella rivoluzione, che elaborando definitivamente il concetto della libertà dell’individuo ne fondò le necessarie premesse. E all’interno della scuola davidiana, tra gli allievi più dotati, che — maturò il Romanticismo, che solo tra il 1820 ed il 1830 divenne stile d’avanguardia e cominciò a contrapporsi al Neoclassicismo visto come stile ormai conservatore. Nel 1799 appare “la Cristianità o l’Europa” di Novalis, in cui si esalta quale età dell’oro il medioevo per la sua cattolicità in contrapposizione all’illuminismo. L’evoluzione conservatrice dell’Impero, il concordato e la riabilitazione della nobiltà costituiscono una spinta profonda all’affermazione del Romanticismo. L’anno dopo il concordato François-Auguste-René Chateaubriand scrive “le Génie du Christianisme” , ottenendo un successo senza precedenti, pare che Napoleone ne tenesse una copia sul comodino, e segnando la nascita del partito clericale. Si ricominciano a dipingere i soggetti sacri, vietati durante la Rivoluzione. La rinascita religiosa inizia con l’opposizione politica sotto il consolato e viene accolta con entusiasmo dal potere. L’alta borghesia aveva appoggiato la rivoluzione anche per tornaconto, temendo sotto la monarchia la bancarotta dello stato di cui era grande creditrice. Combattere per un ordine nuovo equivaleva anche a garantire le proprie rendite. Le imprese napoleoniche imposero sacrifici durissimi al paese, ma furono anche fonte di enormi guadagni per gli speculatori ed i fornitori dell’esercito.
La rivoluzione provocò un reale mutamento della composizione e degli orientamenti del pubblico degli amatori d’arte. Nel Settecento Parigi grazie ai salons era divenuta la capitale artistica d’Europa, ma il pubblico aveva dell’arte una visione pratica legata al suo utilizzo ed era uno dei mezzi con cui esprimere la vicinanza delle classi colte alla corte e la sua distanza dai ceti inferiori. Durante l’Impero si consolidarono i rapporti diretti tra artisti e pubblico di amatori con interessi ora puramente estetici, favorendo negli artisti la libertà di scelta e lo sviluppo delle inclinazioni personali. L’inferiorità vissuta dall’artista, di fatto annoverato tra i servi, cessò con la Rivoluzione ed anche materialmente crebbero i guadagni favoriti non solo dal nuovo atteggiamento del governo nei confronti dell’arte, ma anche dagl’acquisti dei privati nei numerosi salons e nelle ripetute vendite all’asta, dove i prezzi crebbero notevolmente, soprattutto durante l’Impero. Al ritorno di madame Elisabeth Vigée-Lebrun dopo soli dodici anni di esilio la civiltà dei salotti gestiti dalle femmes savantes è scomparsa, travolta dal furore rivoluzionario. L’artista non doveva più mendicare il favore dei potenti e dimostrare di essere uomo di spirito prima che artista; l’Esprit, esercizio intellettuale che ben rappresenta la sensibilità del 700, frivola misura dell’appartenenza ad un ceto, scomparve travolto dal trionfo della ben più concreta moralità borghese.
Nel teatro si svilupparono due importanti forme popolari il vaudeville, una commedia inframmezzata da canzoni, ed il melodramma, anch’esso provvisto di accompagnamento musicale, ma di soggetto serio e sovente tragico. L’enorme successo di questi generi popolari fu dovuto sia all’apertura dei teatri alle masse, sia al fatto che la censura napoleonica e poi quella della Restaurazione, non impedirono a questi generi, considerati minori, di trattare argomenti d’attualità e di descrivere con franco spirito critico i costumi dell’epoca. Il melodramma sconta una struttura rigorosamente divisa in tre parti, con una situazione iniziale caratterizzata da forti contrasti, un’intermedia in cui l’urto violento tra i personaggi sfocia in un finale in cui il cattivo è punito, il bene e l’amore trionfano. Per trent’anni fino al 1830 il melodramma dominò la vita del teatro parigino. Il Romanticismo costituì una delle più importanti svolte dello spirito, segnando un’intera epoca. Dal Gotico mai si era così esaltata la sensibilità ed il diritto dell’artista a seguire le proprie inclinazioni.
Nell’ideale romantico riconosciamo una morbosa incertezza per il presente che spingeva a ricercare nel passato quegli ideali che lì ritiene gia pienamente realizzati. Pittori come Füssli prepararono il terreno con le loro visioni arcane, mitiche, all’esoterismo goticizzante.
Il neogotico e la nascita dello Storicismo.
Il sentimento gotigizzante nasce in Inghilterra fin dall’inizio del Settecento e si realizza già compiutamente alla metà del secolo nel piccolo castello neogotico di Strawberry Hill. Anche in Francia durante l’impero sono realizzati arredi ed ambienti neogotici, ad esempio Jacob nel 1804 fornisce gli inginocchiatoi gotici per la cappella del Petit Trianon ed alla Malmaison Giuseppina Beauharnais, fa realizzare nel 1805 una galleria gotica. Anche in Italia il gusto per il Neogotico si diffonde nel secondo quarto del secolo, ne è un esempio l’acquarello di Garnier del 1845, che ci descrive un salotto di palazzo Giustiniani di Roma dove, come era abituale la goticità è ottenuta con il trattamento ogivale della sommità dei mobili. Egualmente è la decorazione, che trasforma in neogotico l’impianto tipicamente biedermeier della scrivania e delle librerie qui a fianco illustrati.
Nella storia e nel passato, contrariamente al Neoclassicismo che vi vedeva un esempio da seguire, il Romanticismo ricercò continuamente analogie e stimoli, che avvertiva come sussistenza e fondamento della sua sensibilità. Il più valido contributo al nostro tempo deriva da questa concezione del processo storico come flusso ininterrotto, continua lotta i cui la vita spirituale è solo elemento del generale processo. Lo Storicismo nasce dall’idea che la comprensione dell’arte, delle istituzione, dell’oggi è possibile solo analizzando il loro originarsi storicamente.
Il Romanticismo costituì l’ideale di una società, che non credendo nei valori assoluti, ritenne possibile giustificarli solo accettandoli per il loro carattere affermatosi storicamente. Esso costituì una delle armi più valide della borghesia nella sua lotta contro i valori assoluti dell’Ancien Regime.
L’illuminismo e la rivoluzione avevano suscitato enormi speranze, il cui fallimento fu imputato in gran parte al ceto degli artisti, attaccati da ogni parte per avere spinto troppo o troppo poco il processo rivoluzionario. Con la Restaurazione la maggioranza di loro si sforzò di servire fedelmente il potere, ma la delusione unita alla sensazione di essere ormai esclusi dalla determinazione degli eventi sociali li spinse a rifugiarsi nel passato nel tentativo di quietare il loro animo. Il Romanticismo trovò il suo principale alimento nelle sofferenze della vita sia personale, che di un popolo. Solo una situazione storica, in cui la libertà individuale è realizzata, ma ove altrettanto è dominata dall’incertezza e dalla delusione del periodo postrivoluzionario, può spiegare un tale impulso all’espansione della sfera psichica, all’insoddisfazione, che pone l’individuo in una continua gara con se stesso. A Roma nel giardino della villa di Zenaide Wolkonschy tra il 1830 ed il 1862 trova posto un’amabile passeggiata, l’Allèe des souvenirs, in cui la principessa aveva collocato tra il verde lapidi e cippi in memoria di amici scomparsi con iscrizioni melanconicamente poetiche del tipo: “La neve ha gelato il fiore nascente, qui non di meno il vento gelido non sfiorerà le rose che l’amicizia coltiva per essa.”
Con il 1830 si concluse definitivamente il neoclassicismo ed iniziò realmente l’Ottocento. Fino alla prima guerra mondiale assistiamo ad uno svolgimento relativamente omogeneo della storia dell’arte. Dal tempo della monarchia borghese di Luigi Filippo iniziarono a delinearsi i caratteri di un intero secolo e tutto sommato di quei valori in cui ancora ci riconosciamo. Stendhal (Beyle Henry, detto) e Honoré de Balzac per primi indagarono le difficoltà morali, i conflitti ed i problemi propri della nostra vita.Tra il 1830 ed il 1910 assistiamo ad un’evoluzione intellettuale continua ed organica, da Stendal (Beyle Henry, detto) a Marcel Proust tre generazioni affrontarono le stesse problematiche.Da questa data è ormai lampante che la borghesia fu il solo pubblico in grado di costituire un mercato soddisfacente per le opere d’arte. D’ora in poi, se voleva trovare acquirenti, gli artisti dovettero servire l’ideologia liberista, sempre ribelli nell’atteggiamento, ma non per questo meno utili portavoce nei fatti.
Il liberismo realizzò leggi di mercato, che appariranno d’ora in avanti sfuggire al controllo dell’individuo, per assumere un carattere automatico. Il sacrificio personale e la necessità di dedicarsi agli affari trascurando ogni altro interesse, per resistere ad una sempre più pressante concorrenza, nell’aspirazione monomaniaca e spietata al successo e soprattutto l’automatismo del meccanismo, resero il sistema incontrollabile, sinistramente implacabile. Dalla frustrante consapevolezza di incontrollabilità e dall’incertezza costante del futuro personale, nacque lo scetticismo, il pessimismo ed il desiderio di estraniazione. Il pensiero socialista, la bandiera rossa appare la prima volta nel 1832, esplicitò e portò alla ribalta le esigenze del proletariato industriale, costituendo non solo un ulteriore elemento di instabilità del potere borghese, ma soprattutto la più profonda base critica dei suoi ideali liberistici.
Negli atteggiamenti dei giovani bohèmiennes non c’era solo l’odio per la vita borghese e la volontà di creare scandalo ma soprattutto il desiderio di isolarsi dalla vita reale, prende corpo l’idea, tuttora ampiamente condivisa, che solo i giovani possono essere progressisti. Il concetto dell’arte per l’arte permise questo estraniamento contrapponendosi all’ideale rivoluzionario di un arte militante. Per altro i bohèmiennes non solo si sentirono vicini al proletariato, ma effettivamente le loro condizioni furono le stesse, il che li spinse a posizioni sempre più estreme.
In Inghilterra il Romanticismo nacque in una nazione indebolita e disorientata dal duro conflitto con Napoleone, caratteristiche tali da spingere la borghesia quantomeno a dubitare dell’incrollabile fiducia nel progresso e nel liberismo, che costituivano le fondamenta del suo esistere. Percy Bysshe Shelley, John Keats e lord Gorge Gordon Byron, i più giovani tra i romantici, avviarono una critica, forte del loro umanesimo, contro la politica di sfruttamento e di oppressione operata dal capitale. Il Romanticismo sorse in Inghilterra dalla reazione liberale alla rivoluzione industriale e proseguì direttamente il Preromanticismo settecentesco. Mentre in Francia il Neoclassicismo si frappose fra di essi. I migliori poeti di tale generazione non trovarono consenso nel pubblico e sentendosi senza patria si rifugiarono all’estero, così come accadeva in Germania ed in Russia. Ciò portò alla nascita in Francia dell’arte per l’arte, in Germania dell’idealismo ed in Inghilterra dell’estetismo; tutti movimenti, che distolgono dalla realtà e dalla lotta politica attiva. Nel romanzo questo segnò la consacrazione dell’eroe orgoglioso, solitario e perseguitato dal destino. L’inquietudine del romantico diventa contagio “il male del secolo”. La musica subì una definitiva trasformazione ad opera del romanticismo, che la considerava l’arte per eccellenza. La gloria di Carl Maria Weber, Fryderych Franciszek Chopin, Franz Liszt, Richard Wagner riempì tutta l’Europa e superò il successo dei poeti. Solo la musica resterà sino alla fine dell’Ottocento pienamente romantica.
Lo sviluppo tessile.
Lione dominò il mercato della seta a grande opera del secolo. Dal 1825 con la fondazione della “Scuola centrale delle Arti e delle Manifatture” gettò le basi per lo sviluppo tecnologico, che porterà nel 1880 alla meccanizzazione completa di tale produzione. Il telaio semi-meccanizzato Jacquard del 1801 viene introdotto, grazie ad ulteriori perfezionamenti, nella tessitura delle sete lionesi intorno al 1840.
L’America alla metà del secolo assorbe da sola oltre il trenta per cento della produzione; esportando in cambio il finissimo cotone del sud impiegato nelle tessiture miste. Si tratta di una stoffa di lusso alla portata solo della grande borghesia. Generalmente essa è impiegata in arredi tradizionali e per la sostituzione delle tappezzerie usurate, ma l’esigenza di dimostrare la propria potenza economica porta ad utilizzarla anche nel capitonné. La seta a grande opera non si presta per la sua intrinseca fragilità a tale tecnica ed ancor meno il suo raffinato disegno ad essere interrotto dalla trapunta e dai bottoni. L’alta borghesia vuole così dimostrare di potersi permettere quel lusso dello spreco, che era fino ad allora appannaggio dell’aristocrazia.
Verso il 1860 incomincia ad interrompersi il trend positivo. Dal 1854 una malattia del baco da seta si diffonde rapidamente dalla Francia al resto d’Europa. La sostituzione con sete importate dall’oriente non era agevole, in quanto al loro basso prezzo non corrispondeva l’alta qualità di quelle europee. Esse erano più irregolari, grossolane ed opache, inadatte ai telai meccanici, costruiti per fibre più regolari. Contemporaneamente la guerra di Secessione americana aveva estremamente rarefatto anche l’importazione dalla Luisiana dell’ottimo cotone americano. Risultò impossibile produrre industrialmente tessuti continui in seta e misti, sulle cui lisce superfici risaltava ogni imperfezione. Per fortuna il gusto più carico d’ornamento, che stava affermandosi, permise a sarti ed a tappezzieri di trovare una soluzione.
Sopravvissero solo quei tessuti la cui lavorazione permetteva di nascondere con l’utilizzo di orditi più consistenti i difetti nella trama. Ma soprattutto si ricorse massicciamente all’utilizzo di fiocchi, frange e varie passamanerie, che non mostravano i difetti del filato e li nascondevano perfettamente interrompendo continuamente le superfici. Ciò rese gli abiti molto simili alle tappezzerie.
In questo modo era però possibile riciclare tali tessuti riutilizzandone gran parte e si rischiava di veder scendere il consumo. Nel 1859 William Henry Perkin, come abbiamo già detto, perfezionò la tintura all’anilina e grazie alla enorme varietà di disegni ottenibili da un numero infinito di tonalità il mercato prese nuovo vigore. Dagli anni 30 erano stati già prodotti altri colori artificiali: nel 1827 il blu oltremare e nel-1849 il giallo all’acido picrico entrambi da Guinot; la fucsine nel 59 da Verguin, da cui si traevano le tonalità azuline,coralline,bleu-de-Lyon ed innumerevoli toni di viola.
La grande Maison Worth riuniva nella stessa esigenza di affermazione del proprio status economico, l’unico ormai a contare, una variegata committenza di principesse, attrici come la Duse, signore dell’alta finanza internazionale e celebri mondane.
Verso la metà del secolo. La stampa e la sua influenza sul romanzo.
Le similitudini con il teatro.
Nel 1836 Emile Girardin fondò il giornale “la Presse” ed introdusse un’innovazione di importanza storica, riducendo l’abbonamento a metà prezzo e coprendo i restanti costi con avvisi ed inserzioni pubblicitarie.
Presto altri ne seguirono l’esempio ed in soli dieci anni i lettori triplicarono. L’altra novità era costituita dall’aggiunta in fondo ai giornali del romanzo a puntate, di cui il più celebre fu senzaltro “I tre moschettieri” di A. Dumas padre. La necessità di rendere più cospicui i periodici, forzatamente ridotti dalla censura, spinse gli editori dal Consolato alla Restaurazione ad aggiungere cronache di viaggio e pagine di critica letteraria, che dal 1840 furono quasi totalmente sostituiti dal romanzo d’appendice.
Per far fronte alla richiesta sorsero vere e proprie manifatture letterarie, gli autori associavano scrittori minori per una vera e propria produzione in serie.
Allo stesso Dumas fu contestato in una azione giudiziaria di aver pubblicato più pagine di quante materialmente avrebbe potuto scrivere. La divisione in puntate obbliga ad uno stile particolare. Ogni capitolo deve avere un suo svolgimento con un crescendo drammatico ed un finale adatto ad eccitare la curiosità e l’aspettativa per il successivo episodio, è evidente l’attinenza con il melodramma ed infatti anche il romanzo dovette assumere in parte le regole dello svolgimento teatrale. Il romanzo d’appendice ed il melodramma, da cui nasce l’operetta il genere più amato di tutto l’Ottocento, furono il segno di un generale livellamento del pubblico, una democratizzazione della letteratura, cui contribuì l’ampliarsi della rete ferroviaria e dei trasporti capaci di portare ai teatri masse di pubblico sempre più considerevoli. Mai prima un’arte aveva trovato un’accoglienza così unanime tra ceti tanto diversi. L’operetta assunse quali precipui caratteri, l’assoluta mancanza di verosimiglianza delle scene, tanto più apprezzate quanto più irreali, fantastiche, fiabesche e vorticose. Essa conobbe la maggior fioritura tra il 1855 ed il 1867, con il secondo Impero. Le traversie economiche della fine del sesto decennio, insieme con la scomparsa di quella tranquilla spensieratezza propria di un pubblico economicamente sicuro, posero termine al suo apogeo. Rimase ancora a lungo fino alla prima guerra mondiale quale espressione dei bei tempi andati, che una parte d’Europa continuò ad identificare con Napoleone III° ed Jacques (pseudonimo di Eberseht) Offenbach e l’altra con Johann Strauss e Ceco-Beppe.
Ma anche la grand’opera subì una sorte analoga, e se già nel teatro barocco i costumi e gli scenari soverchiavano la scena, la sensibilità borghese accentuò la ricerca del monumentale e dell’imponente, come tutt’oggi sopravvive ad esempio in Aida, e se il Barocco riflette la grandiosità aulica della corte, il Neobarocco mostrò appieno il suo sfrenato bisogno di grandiosità. La grande opera riuscì ad affermarsi uniformemente in tutt’Europa, perché la cultura borghese francese era per tutti d’esempio.
Nell’arte di Richard Wagner ritroviamo appieno tale teatralità, lo stesso amore di Napoleone III°, la Païva o Emile Zola per il voluttuoso, l’eccessivo ed il prezioso. Le sue opere ci ricordano gli arredi degli interni dell’epoca zeppi di vestiti di seta, tappeti, portiere, velluti e mobili ricoperti.
La borghesia vuole distrarsi, distogliere il pensiero dalle fatiche del lavoro e quindi pretende che anche l’artista più che un vate sia un maître de plaisir. Il concetto d’arte per l’arte diventa uno strumento, in mano ai romantici per affermare la completa libertà dell’autore ed in mano alla borghesia per rendere possibile, anche nell’arte, quella divisione del lavoro, che caratterizza il liberismo. Da ora in poi ogni arte postromantica porrà alla sua base l’invenzione, il sentimento, e l’ispirazione, che si riterranno più vere, più vicine alla vita della costruzione sapiente, l’abilità ed il gusto critico. Se per i classici la coerenza e la chiarezza rendono plausibile un carattere, ora una figura poetica risulta tanto più accettabile quanto più è complicata e legata ad un’interpretazione soggettiva del pubblico. Tutta la concezione moderna assunse a principio dell’arte la trovata felice, la fantasia improvvisa e l’intuizione, che sono i doni dell’ispirazione, cui giova all’artista abbandonarsi. L’incapacità di comprendere l’uomo con la stessa sicurezza del classicismo origina la complicatezza della psicologia moderna.
I musei. L’affermazione del collezionismo.
Nel periodo che va dal 1800 al 1830, si sviluppano i grandi musei europei. Dopo Parigi ecco sorgerne a Londra, Milano, Venezia, Monaco, Berlino, ecc. La loro nascita sovente è frutto di lasciti privati, come avverrà ad esempio a Bologna con l’acquisizione delle collezioni di Pelagio Palagi. Anche in area austrungarica nel 1802 il conte Szécheny dona la sua collezione per la creazione di un museo ungherese; nel 1811 l’arciduca edifica a Graz il museo nazionale della Stiria; nel 1815 l’imperatore Francesco I° crea il gabinetto nazionale dei prodotti manifatturieri collegato al politecnico; e poi nel 1818 a Brünn, nel 1821 a Laibach. Nel 1823 ad Innsbruck, nel 1833 a Salisburgo, nel 1845 a Klagenfurt.
L’istituzione dei musei pubblici muove da due specifici intendimenti.
In primo luogo favorire una formazione razionale e pratica, mostrando con l’esempio del monumento storico il progresso dell’artigianato, del commercio e dell’industria, permettendo agli artisti ed agli artigiani di poter osservare, studiare e misurare dal vero le opere d’arte antiche e moderne; facendole uscire dal chiuso delle camere delle curiosità ed eliminando la fastidiosa consuetudine di riservarne la visione ai pochi eletti di volta in volta autorizzati dal signore locale, unico proprietario dei musei privati.
Per decenni ad esempio a Napoli i Borboni non avevano permesso di disegnare dal vero le opere rinvenute ad Ercolano e Pompei ed anche dopo la pubblicazione ufficiale delle “Antichità d’Ercolano”, terminata nel 1792, tale opera era unicamente offerta graziosamente dal sovrano; costringendo a ricostruzioni affidate alla memoria, con ovvi errori ed interpretazioni personali, i disegnatori. Tanto si è detto delle rapine napoleoniche, ma bisogna ricordare che tali opere furono sottratte ad aristocratici gelosi, che soli potevano goderne e, una volta liberate, finirono nella maggioranza dei casi, o direttamente nei musei, o nelle residenze di corti ed amministrazioni aperte alle visite dei privati, contribuendo decisivamente non solo al diffondersi del Neoclassicismo, ma soprattutto all’allargamento della cultura, rendendo disponibili direttamente sul mercato collezionistico un gran numero d’opere d’arte.
In secondo luogo si rafforzò in maniera decisiva il legame con l’arte del territorio rivalutandone decisamente le tradizioni, dando un fortissimo impulso alle tendenze storiciste ed eclettiche, che, già presenti, ricevettero una spinta determinante dal confronto diretto con i capolavori del passato.
Il museo diviene il luogo pubblico in cui il cittadino può fare esperienza dell’arte e della storia, comprendendone, grazie ad uno sguardo d’insieme, il fondamento dell’evoluzione determinatasi nel processo storico.
Tutto ciò determina una generale tendenza al collezionismo tipica dell’epoca biedermeier. In contrapposizione alla trasformazione capitalistica in atto, tendente a trasformare in merce anche l’oggetto d’arte, il collezionista sottrae al mercato l’oggetto conferendogli una posizione simbolica di a temporalità. Si può affermare che il collezionista combatte contro l’oblio. Spesso è l’oggetto d’uso comune che viene sottratto alla sua funzione d’uso per assumere un posto di rappresentanza.
Nella bacheca e nelle vetrine, accessori d’obbligo d’ogni arredo borghese, si collocano tazzine, scatolette, bicchierini, oggetti di lusso, ecc. Per il collezionista l’esposizione non ha lo scopo di creare una testimonianza storica di valore universale, ma quello di diventare il supporto privilegiato di una memoria individuale e personale. Si voleva dimostrare di potere permettersi di conservare senza utilizzare. Nell’ambito familiare si tendeva a trasformare il puramente utilitario ed a rifiutare il puramente artistico. Ciò portò alla valorizzazione di due elementi: il lavoro artigianale, non ancora alienato dalla divisione del lavoro e dalla meccanizzazione; e l’impiego di materiali naturali, esteticamente qualificati dalla mano dell’uomo. Prense luce una sensibilità per il linguaggio delle forme diversa dall’imitazione dell’antico. Il rapporto con il passato non era più dettato dallo stupore di fronte alla perfezione dei classici e dal desiderio di ricrearla nel presente, ma si motivava in una profonda insoddisfazione per il presente stesso. È nel museo immaginario in cui riunire tutte le culture e gli stili che si fondò la speranza del borghese di originare e salvare la propria identità; collezionismo e Storicismo si alleano per acquietare le insicurezze dell’anima. Si coniugano due necessita parimenti sentite. Da un lato la cultura borghese dell’oggetto ben costruito, utile, robusto, funzionale, di costo non elevato; dall’altro l’esigenza di mostrare la propria agiatezza economica, il comune gusto condiviso. L’oggetto diventa feticcio, rivestito di sentimenti, sensibile testimonianza di valori. La collezione diviene il fulcro dell’auto-rappresentazione, che nella contemplazione degli oggetti rende distante il presente. Iniziò quella cesura tra privato e pubblico, che diventerà determinante dopo il 48. Si fabbricavano oggetti nuovi talmente simili a quelli antichi da rendere necessario applicare una targa per distinguerli dall’originale. Le copie sono riconosciute per quello che sono, una testimonianza reale di un’esistenza passata adatta a riconoscere un universale coincidenza del concetto di bello, che permette di avvicinare pezzi antichi e rifatti. L’opera bella diventò il testimone ideale dell’integrazione filosofico-storica. Per il borghese la sensazione pressante che molte cose stanno per scomparire lo portò a conservare un campionario di ciò che fu e di cui presto non resterà traccia. Nella prima metà del secolo in una fase ancora di passaggio all’industrialismo, quando gli usi, i costumi, ed i modi tradizionali di produzione furono rapidamente superati dall’avanzare del progresso, nacque potente la volontà degli archeologi, degli storici e dei collezionisti di classificare, conservare, salvare quegl’interni pubblici o privati della memoria di cui persino il ricordo pareva minacciato di scomparsa. In questo generale atteggiamento si rifletteva appieno la paura tipica della società borghese, di veder il rapido sviluppo del suo tempo inghiottire tutta intera la storia.
Lo stile Biedermeier non solo trovò rapidi motivi di diffusione in condizioni comuni all’Europa postrivoluzionaria, quali l’esigenza di arredi meno costosi dopo il dissanguamento delle guerre napoleoniche, e l’introduzione di linee tondeggianti in reazione alla rettilinearità neoclassica ed adatte ad esprimere con l’uso delle sole essenze, essendo i decori bronzei estremamente costosi, la ricchezza della decorazione; ma usufruì di una circostanza pubblicitaria senza precedenti. Nel 1815 si apre il Congresso di Vienna. Il Garde-Meuble imperiale si trovò di fronte alla gravosa incombenza di ospitare i delegati provenienti da ogni parte d’Europa con tutto il loro seguito. Si dovette approntare un gran numero di alloggi ammobiliati secondo il rango dell’ospite cui erano destinati, seguendo una rigida etichetta:
1. mobili in legno lucidato, tappezzati di seta, per il maggiordomo, i nobili e le dame.
2. mobili in quercia bionda per i consiglieri ed i precettori.
3. mobili in quercia grigia per gli ufficiali di corte e i domestici.
Per tale motivo sono tuttora presenti nel Garde-Meuble austriaco un così gran numero di mobili Biedermeier.
Dopo aver vissuto in ambienti confortevoli e tutto sommato pregni di una loro eleganza i delegati riportarono in patria una forte influenza dello stile dominante nella capitale politica d’Europa.
Il Biedermeier viene riconosciuto nella sua autonomia stilistica solo dopo cinquant’anni per la prima volta nella mostra sul congresso di Vienna curata dal Museo austriaco dell’Arte e dell’Industria nel 1897. Fino allora il termine (nato nel 55 dall’unione dei nomi di due personaggi satirici di “Fliegende BlÄtter”: Biedemann e Brummeimeier, che diventarono il signor Biedermeier) era usato in senso dispregiativo e si considerava lo stile Impero quale ultimo stile organico prima dello storicismo. Nel 900 gli architetti e gli artisti dell’avanguardia viennese da Hoffmann a Moser ritrovano nel Biedermeier la fonte della loro ispirazione, nella ricerca di riforma dell’arte in senso moderno. Essi identificano in tale stile l’epoca dell’oggetto utilitario e borghese, simbolo di funzionalità, di semplicità e di lavoro artigianale ben eseguito in contrapposizione alle soffocanti espressioni del tardo Storicismo.
Nel 1807, regnante Francesco I°, si fonda il “National-Fabriks-Producten-Cabinet” in cui si raccolgono esclusivamente capodopera per illustrare la perfezione di determinati settori di produzione, già nel 1829 erano presenti più di 18000 opere. Nei tre arredi qui illustrati si esemplifica la diffusione dello stile Biedermeier, in grado di influenzare la produzione d’alto livello in tutta Europa Con il medesimo intento di fornire una base tecnica all’artigianato di qualità nasce a Vienna nel 1864 il Museo austriaco dell’arte e dell’industria, primo in Europa dedicato all’artigianato d’arte. Vienna era per abitanti la terza città d’Europa capitale politica e culturale di un impero che si estende a buona parte del centro Europa, comprendendo Milano e Venezia. In questi anni non c’era centro europeo di produzione che possa competere in varietà di modelli curvilinei ed in solidità costruttiva.
Fino al 1830 sopravvive un’impostazione ancora neoclassica, che si esprime nell’adozione di decori di legno od in pastiglia dorata e nell’applicazione di ornamenti in metallo dorato a foglia (spesso in piombo, come nel secraitaire raramente sopravvissuti e sovente sostituiti nei restauri successivi, quando si resero disponibili decori semindustriali dorati galvanicamente, economici e di sufficiente qualità,) , di costo decisamente inferiore di quelli in bronzo dorato a fuoco tipici dell’Impero. Si semplificano all’essenziale le forme, si riducono i volumi, si privilegia la visione frontale.
I contrasti di legni naturali ed ebanizzati dal 1830 portano all’abbandono di tali decori applicati, ricorrendo al solo intarsio ed al movimento dei piani arricchiti da ampie impiallacciature perfettamente lucidate (nel 1820 si cominciano ad utilizzare le macchine sfogliatrici, che consentono di ottenere un maggior numero di impiallacciature con lo stesso disegno, grazie agli spessori più ridotti), disposte a formare un disegno verticale richiamante il senso della crescita della pianta. Il mobile diventa più pesante e massiccio. Il 1820-30 vede nascere modelli di mobili di tale modernità da avvantaggiarli di un secolo. Molti di questi mobili si possono facilmente confondere con le creazioni del primo 900. Solo dal 1830 si assiste ad una massiccia introduzione di macchinari per la lavorazione del legno.
La prima metà del secolo vede modernizzare molti dei processi produttivi, dopo i primi esperimenti sull’illuminazione a gas del 1817 al Politecnico di Vienna ci furono: nel 1822 a Vienna le molle per le imbottiture, che si diffondono generalmente in Europa dopo il 1830; nel 1823 in Germania il modo di ottenere colle dalla macinazione delle ossa animali; nel 24 in Inghilterra la prima locomotiva a vapore; nel 25 sempre in Inghilterra il sistema di estrarre la linfa dalle impiallacciature, grazie alla compressione ottenuta con appositi rulli; subito dopo il sistema di essiccazione a vapore;
nel 30 Michaël Thonet ed il suo metodo per la curvatura del legno a vapore; nel 34 Karl Jacobi sperimenta il primo motore elettrico mosso da corrente ottenuta chimicamente, ma solo nel 60 Antonio Pacinotti ottiene il primo vero motore elettrico; nel 39 il Dagherrotipo; ecc. l’introduzione di sistemi sempre più avanzati porta alla possibilità di impiallacciare legni curvi in maniera totalmente meccanica su strisce di legno curvate ed incollate in una linea continua. Grazie a tali tecniche i dorsali delle sedie vengono elaborati nelle maniere più fantasiose tanto da lasciare poco spazio, nonostante la moderna tecnologia, ai design moderni. Esse erano, fino al 1830 circa, imbottite rigidamente di capecchio e crine di cavallo, ma leggermente bombate al centro onde evitare lo sfregamento delle gambe contro la traversa anteriore In alcuni mobili, soprattutto per signora, vengono collocati alla base dei cuscini, questo per ovviare alla sottigliezza delle suole delle scarpe femminili, che lasciavano filtrare il freddo dei pavimenti. Elementi decorativi intagliati tratti in parte dal repertorio neoclassico sono ampiamente utilizzati, insieme a disegni ispirati alla pittura vascolare greca ed a quello che è l’elemento più caratteristico: la lira.
Forse a causa del grande amore per la musica la lira viene utilizzata ampiamente come supporto dei tavoli, ma anche come sagoma di parafuoco e di secrétaire. Altro arredo ampiamente utilizzato fu l’armadio guardaroba a forma di solido parallelepipedo normalmente a due ante, tale arredo è praticamente sconosciuto nell’Impero. Il mobile di maggior prestigio resta il secrétaire in cui l’ebanista può mostrare tutta la sua bravura e soddisfare con cassetti e cassettini il desiderio borghese di conservare e nascondere la corrispondenza personale e quant’altro dietro un robusto sportello, necessità quanto mai attuale ora che anche i servi cominciavano a saper leggere. L’introduzione delle molle rese possibile l’esecuzioni di divani ampiamente imbottiti, fino alla scomparsa della stessa struttura lignea, secondo una tendenza in atto fin dall’inizio del secolo. Ovunque, anche in Italia, inizialmente si cercò di mascherare l’interveto delle macchine, e grazie appunto alle impiallacciature si riuscirono a contenere i prezzi, ma il desiderio di ornamento, che più ci si avvicinava alla metà del secolo più faceva apprezzare il mobile per la sua ricchezza, la necessità di far apparire il mobile prodotto da un maggior numero di ore lavorative, spinse gradatamente ad adottare tecniche di camuffamento. Ad esempio sagomando i piani e provvedendoli di una cornice si arricchiva l’arredo senza aumentarne il costo. Inoltre si ricorse all’applicazione sempre più massiccia di elementi torniti, dalle colonne, ai torciglioni, ai rocchetti, alle borchie con cui si sostituirono presto anche le bocchette delle serrature. Gli spigoli semplicemente stondati conferivano movimento. Lo stesso ricorso ai disegni delle varie pubblicazioni e l’imitazione dei modelli antichi erano un valido mezzo di risparmiare sulla progettazione.
L’unità stilistica uniformò gli arredi del Rococò, del Luigi XVI° e dell’Impero, la ripetizione di dettagli quelli dello storicismo e dello Jugendstil, il Biedermeier ricorse all’uniformità delle tappezzerie quale elemento unificante dell’ambiente.
In un epoca di controllo poliziesco, quale fu quella di Klemens Wenzel Lothar Metternich, gran parte della popolazione si concentrò sulla vita familiare e domestica. Cominciava a crearsi quella frattura tra interno ed esterno, in cui il privato diviene il terreno privilegiato della vita, protetto dal mondo esterno dal suo chiasso e dalla frenesia del lavoro, rinchiuso dai muri e dalle convenzioni della famiglia. Un proprio universo di certezze dove ciò che si possiede è esemplare di quello che si è; non solo nel senso della dimostrazione a se stessi ed agli altri del proprio stato sociale, ma soprattutto nella conferma del diritto di appartenere culturalmente alla propria classe. La donna è parte integrante di questo processo, siamo ormai lontani dalla femme savante del 700, dal sensuale ed erotico rapporto, che la legava all’arte, ella è ora l’angelo del focolare, strenuo difensore della morale e degli affetti. Non a caso nasce ora il termine casalinga. Questo ruolo viene ufficialmente sancito nel 1871 nel libro “L’arte nella casa”, edito a Vienna ed in cui Jacob von Falke dedica un capitolo alla “missione estetica della donna”. Il nuovo senso della famiglia diventa base politica dello stato. L’imperatore Francesco I° trasferisce la base dell’autorità dal diritto divino e dall’idea astratta dello stato all’etica della famiglia ed al naturale rapporto d’autorità del padre in seno ad essa. L’autorità monarchica messa in crisi dal secolo dei lumi si rifonda sull’etica patriarcale della famiglia, caratteristica della borghesia. L’imperatore è rappresentato non più come un monarca assoluto, ma come il gran padre dei suoi sudditi. Da questa visione scaturirà tutta la tematica tard’ottocentesca della nostalgia dei buoni vecchi tempi andati.
Tutto ciò, insieme alla riduzione degli spazi abitativi, portò ad un nuovo concetto dell’abitare con la trasformazione di tali spazi da strutturati a vissuti. Lo stesso luogo raggruppava diverse funzioni a secondo della disposizione e dell’utilizzo dei mobili, che spesso erano trasformabili secondo le esigenze specifiche, esso poteva indifferentemente essere sala di lettura, di conversazione, di lavoro o da pranzo. La casa ottocentesca cambia totalmente la disposizione dei mobili, radunandoli in gruppi omogenei e spostandoli al centro delle stanze. Si crea un’arredo informale, che permette la crescita della casa per aggiunte successive senza dover seguire un solo stile, procedendo per accumulo, fino all’ingombro totale di oggetti della seconda metà del secolo. Oltre che collezionati tali oggetti dovevano essere esposti per mostrare il grado culturale del proprietario ed ecco allora oltre alle vetrine apparire in gran numero l’étagères. Massiccia fu la produzione di oggetti in madreperla, che vide arrivare l’importazione delle conchiglie, iniziata dopo il 1812, già nel 1816 a 26776 lire. A partire dal 1840 la moda dell’intarsio alla Boulle e del mosaico segnerà il declino della madreperla. Ancor più importante la produzione in porcellana di vasellame, statuette e ninnoli di tutti i tipi. La natura non appare più ostile, ormai dominata dalle macchine e dal vapore, e dunque entra addomesticata negli interni in innumerevoli giardiniere e porta vasi. Anche il paesaggio sarà portato dal vero all’interno delle mura domestiche dai pittori della scuola di Barbison.
Il connotato caratteristico fu senz’altro la varietà e la diversità delle strutture, comune all’arte dell’architetto ed a quella del mobiliere, che saranno anche la base della moderna concezione dell’abitare. Il Biedermeier costituisce l’elemento centrale, che permette il passaggio dagli eleganti, raffinati e rarefatti interni neoclassici d’inizio secolo a quelli densi e pingui della seconda metà.
L’Italia dopo il 1830.
Nel 1816 un sega meccanica idraulica circolare del diametro di circa tre metri poteva tagliare assi di mogano in spessori inferiori al millimetro. Nel 1841 a Firenze presso i mulini Renai fu impiantata una sega circolare idraulica cui si aggiunse tre anni più tardi un coltello idraulico, il suo funzionamento era simile alle moderne macchine tranciatrici. Il legno dopo essere stato bollito per un certo tempo veniva affettato da una lama a scatto azionata da un insieme di molle. Nel 61 all’esposizione di Firenze fu esposta una moderna combinata mossa da un motore idraulico. Tutti sperarono nella rapida adozione di tali macchinari, ma la frammentazione e l’arretratezza economica, che faceva gravare totalmente sulle spalle dei singoli imprenditori l’onere degl’investimenti, ritardarono ancora per lungo tempo la modernizzazione. Mancava ancora un tessuto economico e creditizio sul tipo di quello inglese. Inoltre la produzione era troppo ancorata ai modelli artigianali di lusso, che costituivano la principale voce d’esportazione.
In Italia assistiamo al progressivo affermarsi intorno agli anni quaranta della produzione neo rinascimentale, affiancata da una spasmodica ricerca del pezzo antico, cui viene affiancato senza nessun’esitazione quello in stile. La frenesia per l’antico porta alla produzione di pezzi magistralmente eseguiti con l’utilizzo di legni antichi, patinati in modo da confondersi con quelli autentici. I prezzi raggiunti dall’antiquariato cinquecentesco, portano in alcuni casi a spacciare tali produzioni per autentiche. Come nel famoso caso del cofanetto “in bello stile del seicento” realizzato da Giovanni Duprè e venduto alla marchesa Poldi Pezzoli, come opera del Tasso su disegno di Benvenuto Cellini, tuttora nel museo Poldi Pezzoli di cui è comunque una delle opere significative. Notiamo che la copia dei decori antichi non si faceva scrupoli, ed avveniva anche senza troppe pretese culturali, se in tale cofanetto Cellini (Firenze 1500,1571) era fatto vivere nel 600.
La seconda metà del secolo. Servizi igienici ed illuminazione.
Intorno al 1850 molte case altolocate erano ormai provviste di servizi igienici, ma le segette ed i vasi da notte restano comunque molto diffusi e nel 1848 un tappezziere parigino produsse una comoda mascherata in forma di pila di libri dallo spiritoso titolo “I misteri di Parigi” ed un altro “Viaggio nei Paesi-Bassi.
L’americano Erastus Bigelow presenta all’esposizione di Londra del 51 un telaio meccanico in grado di confezionare i tappeti, ciò modificò velocemente il mercato portando alla scomparsa della moquette in bande ormai sostituite dai tappeti in un solo pezzo.
Nel 44 sono disponibili diversi tipi d’illuminazione: candele di Palmer, con doppio stoppino immerso in bismuto, ridotto in stato finemente metallico; la lampada d’Argand, con stoppino tubolare per consentire la doppia circolazione dell’aria, ad olio di colza, la cui densità fece collocare il serbatoio al di sopra della fiamma onde favorirne per caduta a gravità la distribuzione, poi si studiarono anche sistemi meccanici per pomparlo; la lampada anulare, o astrale, od anche sinumbra, che grazie ad un serbatoio appiattito ed inclinato proiettava poca ombra; la lampada solare, grazie ad un particolare dispositivo permetteva di bruciare vari tipi di olio tra cui quello di strutto, che essendo molto diffuso in America portò lì al suo rapido sviluppo; la lampada vesta, che utilizzava la trementina rettificata estremamente pericolosa e per questo motivo fu ben presto abbandonata. Quella Argand, soprattutto nella versione meccanica Carcel, fu la più diffusa e sarà rapidamente sostituita a metà degli anni 60 grazie all’introduzione di quella a petrolio, scoperto nel 1859 a Oil Ceek in Pennsylvania. L’illuminazione con lampade a gas viene introdotta per la prima volta nelle case londinesi nel 1815; nel 30 un complesso sistema di tubi telescopici con giunti a tenuta permisero di alzare ed abbassare i lampadari a gas e verso la metà del secolo le lampade da tavolo potevano essere collegate al lampadario da un tubo di caucciù. Dalla metà del secolo le principali città europee saranno dotate di un impianto di distribuzione del gas pubblico e privato.
Il Capitonné.
La nascita di tale tecnica si colloca in Inghilterra verso la metà del 700, anche se si tratta per il momento di semplici impuntature a vista. Il capitonné, classicamente costituito da una trapunta trattenuta da un bottone rivestito in genere della stessa stoffa, divenne indispensabile per fissare le imbottiture di grandi proporzioni, realizzate alla continua ricerca di un maggiore confort dal 1840.
Nel 1834 il tappezziere Dervilles da alle poltrone imbottite presenti all’esposizione dei prodotti dell’industria francese il nome di confortables.
All’esposizione di Londra del 1851 sono esposte poltrone capitonnées provviste di foderine, per evitare gli antiestetici danni della brillantina. Giuseppe Cima nel 1840 mostra, in una delle 300 tavole de “L’addobbatore moderno”, un bagno in cui la vasca è nascosta da un canapè capitonné seguendo la tipologia neoclassica.
Sono sopravvissuti pochissimi arredi originali in capitonné a causa dell’eccessivo costo di restauro di un mobile costruito quasi interamente in tappezzeria, che ne rendeva più economica la sostituzione.
Il pouf compare a Parigi intorno al 1845, è un grosso panchetto cilindrico riccamente tappezzato spesso a capitonné, non tutti lo apprezzano per la relativa comodità e l’eccessivo ingombro, ma l’atmosfera orientale che ispira ne segna il successo.
Dalla metà del secolo si afferma nell’abbigliamento delle signore la gabbia in crinolina, per riuscire a coprirla scendendo dalle spalle sopra all’ampio vestito gli scialli all’indiana assumono tali dimensioni da renderne possibile l’utilizzo per la copertura provvisoria di sedili, tavoli e camini, quasi che inconsciamente si volesse rinchiudere la donna e la casa in un’ideale gabbia dorata degli affetti domestici.
Il progresso e la crisi dell’organizzazione della bottega.
Nell’Ottocento si manifesta anche lo scontro titanico tra il naturalismo, ad esempio di Honoré deBalzac con la “Comédie humaine”, ed i materialismo storico, di Karl Marx e Friedrich Engels, il primo vede nel proletariato e nella sua lotta nient’altro che una delle classi costituenti la società, per i secondi esso diventa la classe destinata sola a cambiare il mondo per il trionfo di una nuova e definitiva era ideale.
Con la metà del secolo assistiamo ad un generale assopimento dello scontro sociale da Napoleone III° in Francia, alla regina Vittoria in Inghilterra, solo i paesi che devono continuare il consolidamento della propria unità nazionale, come l’Italia o l’America, conoscono turbamenti significativi. Ciò corrisponde ad un periodo di benessere favorito da uno sviluppo tecnico senza precedenti dall’inizio della vita urbana.
Mutamenti radicali riguardano ogni aspetto della vita quotidiana: le abitazioni, i trasporti, l’illuminazione, il vestire ed il nutrimento. La storia dell’Arte si configura come una continua evoluzione, rinnovamento ed ampliamento dei mezzi tecnici dell’espressione, con lo sviluppo costante dell’armonico equilibrio tra l’idea dell’artista ed i mezzi della sua esecuzione.
La rivoluzione industriale suscitò un tale rapido mutamento dei mezzi materiali della produzione da non permettere un’adattamento intellettuale altrettanto veloce, determinando un’evoluzione tecnica più rapida di quella intellettuale. In pratica gli artigiani, i maestri indipendenti vennero esclusi dalla vita economica, prima di potervisi adattare e prima di essere riusciti a trasferire organicamente in essa la tradizione artigianale ed i metodi del loro antico mestiere.
Non fu la natura della tecnica, ma l’organizzazione di essa a mettere in crisi i vecchi maestri, provocando la mancanza di veri esperti nell’industria, che si era sviluppata dall’artigianato, ma che da esso troppo rapidamente prendeva le distanze.
Lo sviluppo rapido della tecnica velocizzò il rapido passare delle mode. L’imprenditore per mettere pienamente a frutto i vantaggi delle nuove tecnologie è obbligato a presentare l’ultimo prodotto come il migliore, ed a spingere alla sostituzione continua dei vecchi oggetti d’uso inducendo se necessario nuovi orientamenti del gusto del pubblico.
Questo genera una dinamica molto accellerata delle relazioni sociali e della concezione del mondo, portando alla creazione di metropoli dove appieno si esprime il concetto di modernità; ed è in esse che affondò le sue radici l’arte nuova, l’impressionismo.
La seconda metà del secolo.
Dopo la scomparsa dei vincoli feudali, l’istituzione che più si presta all’idealizzazione borghese resta la famiglia, che con il matrimonio si prestava da un lato ad esaltare i sentimenti più nobili ed altruistici, dall’altro a garantire la necessaria durata e stabilità alla proprietà. La fedeltà diviene per conseguenza il suo pilastro e l’adulterio è severamente condannato solo quando tende a destabilizzare la famiglia. Ecco quindi spiegarsi un mondo tanto serio e posato assieme ai banchieri crapuloni ed alle più raffinate Cocottes. La borghesia è abbastanza ricca per desiderare di brillare, ma non sufficientemente antica per saper evitare l’ostentazione. Ad essa nulla appare troppo prezioso ed è l’ornamentazione che con la sua abbondanza diviene la misura del valore. A questo fine tutto diventa utile: materiali genuini o falsi, specchi e cristalli, seta e cotone stampato, il Barocco come il Rinascimento ed il Gotico.
Parigi è capitale d’Europa, ma non più centro dell’arte e della cultura, ora è la metropoli dei piaceri, dell’opera e dell’operetta, dei ristoranti, dell’esposizioni universali, dei grandi magazzini, il primo a Parigi fu quello della “Belle jardinière” del 1824, di ogni piacere preconfezionato ed a buon mercato. La rivoluzione del 48 non scaturì dalla guerra e la sconfitta come le rivoluzioni del secolo successivo, ma da trent’anni di pace europea mantenuta da una politica consapevolmente controrivoluzionaria.
Gli intellettuali sentono che nel corso del movimento rivoluzionario borghese la partecipazione popolare è sempre più necessaria, la storia moderna è storia di popoli. Anche l’arte è sentita sempre più come espressione attiva di popolo.
Georg Wulhelm FriedrichHegel scriveva nel 1830: ”L’artista appartiene al suo tempo, vive dei suoi costumi e delle sue abitudini, ne condivide le concezione e le rappresentazioni… occorre dire che il poeta crea per il pubblico, in primo luogo, per il suo popolo e per la sua epoca,-i quali hanno diritto di chiedere che un opera d’arte sia comprensibile al popolo e vicina ad essa.” Il Realismo si oppone al Romanticismo e Johann Wolfgang Goethe costata: ”Tutte le epoche in regresso ed in dissoluzione sono soggettive, mentre tutte le epoche progressive hanno una direzione oggettiva.” E Victor Hugo nel 1835: “Nel secolo in cui noi viviamo l’orizzonte dell’arte si è grandemente allargato. Un tempo il poeta diceva: il pubblico; oggi il poeta dice: il popolo.”
Ancora nel 1861 Courbet si esprime in termini molto simili: “il bello, come la verità, è legato al tempo in cui si vive e all’individuo che è in grado di percepirlo…(e l’arte consiste solo) nel sapere trovare l’espressione più completa della cosa esistente”; e nel 68’: “Rinnegando l’ideale falso e convenzionale, nel 48’, innalzai la bandiera del realismo, la sola a mettere l’arte al servizio dell’uomo. E per questo ho lottato energicamente contro tutte le forme di governo autoritario e di diritto divino. Volendo che l’uomo governi se stesso secondo i suoi bisogni, a suo diretto profitto e seguendo una propria concezione.”
Sulla scuola realista di Gustave Courbet, Honorè Daumier e Jean-François Milet, Jules-Antoine Castagnary scrive: “Dipingendo (i contadini ed i borghesi) in grandezza naturale, e dando ad essi il vigore ed il carattere che sino ad allora erano stati riservati agli dei ed agli eroi Courbet portò a termine una rivoluzione artistica.” Gli artisti italiani più legati al risorgimento sono anche gli artisti nuovi. Giuovanni Fattori ripeteva spesso: “Ero il commesso viaggiatore della rivoluzione” e più tardi: “Venne il 59 e fu una rivoluzione di redenzione patria e di arte, e sorsero i macchiaioli.”
Le famose riunioni del 1850 al caffè Michelangelo di Firenze vedevano la presenza di quasi tutti i pittori che avevano partecipato alla campagna del 48’ in Lombardia e nel 49’ alla difesa di Venezia, Roma e Bologna. Il 48’ vede una sostanziale unità storica, politica e culturale delle forze borghesi-popolari.
La seconda parte del secolo si apre con la grande esposizione universale di Londra nel 1851, chiave di volta del secolo essa chiude definitivamente l’epoca dei fermenti rivoluzionari del 48 e consacra quella dello sviluppo economico capitalistico. Nelle esposizioni l’oggetto si circonda di un’aureola di sacralità, svincolato dal suo immediato valore d’uso, coinvolge profondamente l’immaginario del visitatore, abbagliandolo con la densità delle opere, con la varietà cangiante dei colori, lo trascina in una dimensione onirica. Oltremodo stimolato, l’acquisto testimonia al pubblico la possibilità reale di appropriarsi del superlativo, di partecipare al ricco banchetto allestito nel secolo del progresso.
L’uomo per non smarrirsi si rivolge al passato e dapprima ritrova nel Gotico le certezze della fede, messe in forse dal razionalismo borghese e poi definitivamente cancellate dall’eroismo laico della Rivoluzione; o la fuga fantastica in un mondo arcano abbastanza distante da non sembrare contaminato dal positivismo illuminista e dalla ragione eletta a fede. Con l’Ottocento le potenzialità della macchina sembrano inebriare e stordire. La storia appare, in quanto passato, punto fermo da cui attingere e scegliere come in un bell’album di ricordi quello che di volta in volta appare costituire una solida base cui ispirare la propria vita. I musei diventano come una macchina del tempo, che permette di toccare con mano un passato reso solido dai suoi monumenti.
Ad esempio in Francia per legittimarsi Napoleone III° si rivolse al passato prossimo e favorì ampiamente la diffusione del mito simoniaco di Napoleone; neppure san Gennaro è stato riprodotto in tante multiformi immagini. L’imperatrice Eugenia si spinse poco oltre e lanciò la ripresa dello stile Luigi XVI°. Ella era un’appassionata ammiratrice di Maria Antonietta, che pretendeva di reincarnare anche per mascherare le sue origini di parvenu. Curò personalmente molti degli arredi reali, mischiando l’eleganza settecentesca con il confort moderno tipico dei sedili imbottiti a capitonné, utilizzando a fianco dei mobili autentici imitazioni moderne, come queste pubblicate qui a fianco, tanto raffinate da essere intagliate e dorate anche sul retro, perfettamente eseguite da abili ebanisti come Joseph-Pierre-François Janselme, Paul Sormani, Guillaume Grohé; tale amore duro dal 1853 al 1860 e diede origine allo stile detto Luigi XVI Imperatrice. Siamo abituati ad indicare nell’Ottocento il secolo dello straboccare arredativo, dell’horror vacui, in realtà è sostanzialmente dopo il 1870, che si generalizza questa moda. Certo dopo il 1830 l’abbiamo già detto si assiste ad una notevole proliferazione di oggetti, ma in generale tale densità era riscontrabile solo sui piani d’appoggio e nelle vetrine, non certo ovunque nell’ambiente.
Musei, scuole d’Arte applicata, ed esposizioni dopo l’unità.
A Torino nel 1863 si inaugura il Museo civico d’arte applicata all’industria, diviso in due sezioni moderna ed antica, di chiaro intendimento didattico. Presenta mobili antichi, ceramiche opere moderne dell’ottocento, le scavatrici usate per il traforo del Frejus ed opere di Pietro Piffetti, di Giuseppe Maria Bonzanigo, ecc. che serviranno di modello alla scuola annessa. A Roma il Municipio nel 1876 apre una scuola annessa al Museo Artistico inaugurato due anni prima. A Firenze nel 1880 la Scuola Superiore professionale delle arti decorative industriali, fondata nel 1869, diventa pubblica e destinata soprattutto agli ebanisti ed agl’intagliatori. A Napoli nel 1882 il museo artistico industriale con la scuola-officina e così pure a Palermo nel 85. A Venezia dal 1895 la scuola superiore d’arte applicata all’industrie apre il corso di composizione per ebanisti. Nel 1892 centotredici scuole professionali si riuniscono in un convegno a Palermo.
Gli artigiani italiani parteciparono a quasi tutte l’esposizioni, organizzate dopo l’unità. A Londra nel 1862 il Luigi Frullini ottiene il suo primo riconoscimento. A Parigi in quella del 67 sono presenti 123 espositori italiani nella categoria dei mobili di lusso, che ottengono 42 riconoscimenti, tra cui la medaglia d’oro all’intagliatore senese Nicola Giusti. Nel 1873 a Vienna si presentano in 177 ottenendo 59 premi. Nel 78 a Parigi sono in 131 con 96 riconoscimenti, tra cui medaglia d’oro e legion d’onore per tre premiati: Giambattista Gatti, Luigi Frullini e Valentino Besarel.
Le esposizioni erano organizzate per misurare il livello della produzione industriale nei vari paesi, ma l’Italia si presentava esclusivamente nella sezione dei mobili di lusso, ove riceve importanti riconoscimenti per i meriti artistici dei vari artigiani e non per aver raggiunto un livello quantitativo e qualitativo industriale, i riconoscimenti rendono merito alla perizia personale, ma nascondono uno stato di sostanziale arretratezza nel confronto con l’avanzata meccanizzazione e tecnologia straniera. Sarà così anche nelle esposizioni del 81 a Milano e del 98 a Torino, come pure a quella internazionale che chiuse il secolo a Parigi nel 1900. Il censimento del 1871 registrava ben trentacinquemila addetti nei mobilifici, di cui millecento donne, principalmente a Milano e Napoli, seguite da Roma, Firenze e Torino. Nei due panchetti qui illustrati ben si evidenzia nel passaggio stilistico di un secolo l’evidente perdurare di un decorativismo strettamente collegato alla perizia manuale.
Le tendenze igieniste.
Per reazione all’eccessivo proliferare delle tappezzerie si sviluppa una produzione dai caratteri essenziali e funzionali, ripresa e continuazione del Biedermeier, dei mobili in ferro e della scarna praticità della sedia di Chiavari, che pure non era riuscita a rimanere esente dai condizionamenti eclettici. L’arredo in legno curvato.
Micchael Thonet impiantò, dopo alterne vicende, la sua prima famosa fabbrica a Koritschan in Moravia nel 1856, già nel 60 impiegava trecento persone e produceva duecento pezzi al giorno. Poco dopo per far fronte alle richieste aprì una seconda fabbrica sempre in Moravia, qui diede inizio alla produzione della famosa sedia modello 14, il pezzo più diffuso in assoluto. Ma la penuria di materiale lo obbligò ad acquistare intere foreste in Ungheria ed a impiantarvi una terza fabbrica. Per mantenere alta la richiesta si arrivò nell’ultimo catalogo, edito alla fine della I guerra mondiale, a ben 1400 modelli diversi, contro i 25 del 59. Il motivo di quello che fu il più grande successo del secolo con la produzione complessiva in quarant’anni di oltre quarantacinque milioni di pezzi, risiedeva in molteplici motivazioni.
La prima economica per un prodotto poco costoso, ma di grande praticità. La seconda, forse ancor più importante, culturale, per una linea elegante senza tempo e tanto essenziale da poter essere collocata ancor oggi quasi ovunque, dai locali pubblici a quelli privati
L’Impressionismo fu l’arte urbana per eccellenza. L’uomo moderno concepì come mutamento e movimento ogni istante della vita. L’Impressionismo trasformò il quadro naturale in un processo in continua metamorfosi in cui contava l’atto soggettivo del vedere e non più l’oggetto da cui esso si genera. Prima dell’Impressionismo l’arte rappresenta la realtà per mezzo di segni, ora attraverso i suoi componenti e gli elementi di cui è composta. Lo scopo degl’impressionisti era di far acquistare all’opera energia e fascino sensuale, ma ciò comporta inevitabilmente la perdita dell’evidenza e della chiarezza del disegno. La mancanza di forma e la tecnica sommaria furono considerate una provocazione e crearono dalle prime esposizioni uno scandalo profondo. L’impressionismo fu comunque l’ultimo stile in grado di esprimere un effettiva influenza su tutte le arti e le culture delle diverse nazioni. La prima esposizione collettiva degli impressionisti è del 1874 e l’ultima del 1886, ma esso perdurò come post-impressionismo fino alla morte di Cézanne, nel 1906. Così un secolo nato con un adesione comune alla visione culturale dettata dallo stile neoclassico e dall’unificazione politica imposta da Napoleone in guerre che sconvolsero il mondo, termina con un ultimo movimento culturale condiviso e con la prima guerra mondiale. L’acquistata agiatezza portò il borghese ad uno sfrenato desiderio di lusso esteriore con cui mascherare le sue origini spesso modeste e creare un milieu culturale comune un cui riconoscersi come classe, cui sentire di appartenere. In questo nuovo carattere promiscuo della società mondana acquistavano sempre più importanza il demi-monde, le attrici e gli stranieri. La disgregazione finale della classe aristocratica affretta la scomparsa degl’ultimi rappresentanti della buona società d’un tempo.
E dalla crisi dell’unità della cultura, che dopo i 1871, la Comune è l’ultima rivoluzione in cui si registra la partecipazione di un largo settore di artisti, nascerà l’avanguardia e molta parte del pensiero contemporaneo. Vincent Van Gogh scrive: “L’articolo d’Aurier mi incoraggerebbe, se io osassi lasciarmi andare, a rischiare un’evasione dalla realtà ed a fare con i colori come una musica di toni…ma essa mi è così cara, la verità, il cercare di fare il vero, che in fine io credo di preferire il mestiere di calzolaio a quello del musicista di colori”; egli testimonia la crisi dei valori spirituali dell’Ottocento ed apre la strada alla moderna corrente espressionista, che nei suoi vari aspetti collocherà sempre l’uomo al centro dei suoi interessi. Vincent Van Gogh, James Ensor e Edvard Munch, diversi per coscienza, ambiente e formazione, tre degl’artisti più grandi del loro tempo, avvertirono tra i primi i segni della crisi, che iniziata nel 48’, precipita dopo la sconfitta senza appello dei comunardi; ed il dissidio tra gli intellettuali e la loro classe diventa profondo.
La rottura dell’unità rivoluzionaria dell’Ottocento è ormai compiuta e le sue conseguenze domineranno fino ad oggi le problematiche dell’arte e della cultura. È da questo clima che emerse l’ultima tendenza del secolo il Decadentismo, espresso in pittura dal Simbolismo. Jean-Arthur Rimbaud affermò in un urlo: “la vera vita è assente. Noi non siamo al mondo.” In questa frase si esprime tutta la delusione di questi artisti, che un tempo colle speranze rivoluzionarie avevano creduto di poter cambiare la vita ed ora sognano solo la fuga alla ricerca di una purezza, di una verginità, di un Eden in terre esotiche. Ma a tante fughe corrispondono ancora delusioni e ritorni. Gauguin è morto di fame e di disperazione. Allora l’unica fuga resta il sogno, il proprio io o ideali metafisici. Il Decadentismo segna il trionfo dello spirito antilluminista del Romanticismo e deriva dai segnali di decomposizione della società, dal gusto per una civiltà che sta scomparendo una torbida sensibilità per la morte. Quando riesce a svegliarsi da questo letargo è quasi sempre per rivolgersi all’esasperazione del Nazionalismo, come in Gabriele D’Annunzio. Tutto ciò che il Decadentismo francese ed inglese hanno prodotto D’Annunzio lo amplifica nelle sue poesie, nei romanzi, nelle opere teatrali. Anche Giulio Aristide Sartorio mescolò Preraffaelitismo e Simbolismo, ben presto diventò pittore ufficiale ed il nuovo stato nato dal Risorgimento, dimenticato Giovanni Fattori, gli commissionò il fregio per il Parlamento.
È in questo clima culturale di fine secolo che nasce l’Art Nouveau, in Italia chiamata Liberty dal nome di una ditta inglese produttrice di mobili. Tale stile affonda la sua origine nel movimento Preraffaelita, che propugnava tra l’altro il recupero della natura, e nei cui dipinti le piante ed i fiori erano analizzati con minuzia scientifica. Gli arredi qui illustrati possiedono tutte le caratteristiche , cui s’ispirerà l’Art Nouveau: maestria artigianale, l’intarsio è interamante realizzato a sgorbia nel massello; disegno lineare ed elegante; decoro floreale; sapore ancora storicistico. Nel 1888 nasce il movimento dell’Arts and Crafts e i cui elementi tipici sono costituiti dalla linea continua e sinuosa e da fiori e piante stilizzati, ispirati all’arte giapponese.
A Bruxelles nel 1892 l’architetto Victor Horta progetta l’Hotel Tassel reintroducendo la regola della produzione globale, così come aveva fatto Pelagio Palagi, secondo cui la casa deve essere progettata nel suo insieme di muri decori ed arredi da una sola persona come un tutto organico. A Parigi Henri Van de Velde progetta il negozio “Art Nouveau”, in cui la decorazione, detta a colpo di frusta, assume movimenti nervosi, curvilinei. A Glasgow Charles RennieMackintosh nel 1897 esegue i disegni della sala da the, in cui si esprimono semplici linee rette e di moduli cubici sono decorati da motivi floreali ed eteree fanciulle; tali elementi saranno la base dei progetti del secessionisti viennesi: Kolo , Joseph Maria Olbrich e Joseph Hoffmann. Con Herman Muthesius, pure appartenente ai secessionisti, nacque il moderno concetto di design più rispondente all’esigenze della produzione industriale.
E così si concluse l’esperienza dell’Art Nouveau, che con le sue linee e le sue raffinatezze mal si erano conciliate con una produzione meccanizzata industriale.
Anche in Italia si fanno faticosamente strada le nuove idee socialiste in difesa delle condizioni di vita operaie, soprattutto nel milanese. Giuseppe Pellizza dipinge “quarto stato” nel 1891 e Gaetano Previati espone alla triennale “Maternità”, quadro di svolta nella pittura. Mentre incomincia il rinnovamento nelle belle arti comincia anche in quelle applicate a delinearsi una nuova sensibilità contraria all’eclettico disordine pieno di decori eccessivi. Tali sviluppi non sono assolutamente omogenei nel resto d’Italia, in un tessuto sociale caratterizzato da piccole aziende artigiane estremamente frammentate. La decorazione floreale è presente da qualche decennio, ma ancora applicata a modelli eclettici e storicisti. La grande tradizione e maestria degli artigiani italiani costituisce il maggior freno al rinnovamento ispirandosi ancora per molto tempo al grande passato rinascimentale. Ancora nel 1898 a Bologna fu fondata “L’Aemilia Ars”, che proponeva di rinnovare la produzione partendo dalla natura, ma sempre iniziando con lo studio del Medioevo e del Rinascimento. Finalmente nel 1902 venne inaugurata a Torino la prima esposizione internazionale di arte decorativa, che sancisce formalmente quanto all’estero era ormai storia, non senza esitazioni e sconcerto ancora presenti in gran parte del pubblico.
In passato era già accaduto che lo stile amato dai contemporanei sia poi risultato per i posteri e per la critica storica molto meno significativo di altri meno stimati nella loro epoca, tuttavia per la prima volta le tendenze considerate oggi significative furono così totalmente disconosciute. L’arte che più si è dimostrata fruttifera per la sviluppo successivo il Naturismo, da cui si evolverà l’Impressionismo, è arte d’opposizione con uno sviluppo assolutamente autonomo e scarsamente influente sull’arte effettivamente apprezzata dai contemporanei. L’estraniamento degli artisti arriva al punto da considerare l’insuccesso dell’opera come massimo segno di qualità.
La vita artistica era destinata ad una borghesia indolente ed intellettualmente pigra cui dobbiamo l’architettura pretenziosa, superficiale e disorganica, con interni arredati con la più palese falsificazione dei modelli storici; pieni di oggetti tanto costosi quanto superflui. La pittura è ridotta a piacevole decorazione, la letteratura, la musica ed il teatro a lusinghiera superficialità. Il gusto dell’epoca ci appare facilone, incerto, scadente, mentre l’arte che più apprezziamo si riduce ad un ristretto gruppo di addetti ai lavori assolutamente non in grado di mantenere artisti ridotti letteralmente alla fame. Eppure questo giudizio suona in qualche modo falso, troppo somigliante a quello che tutto sommato toccherebbe anche alla nostra epoca. Dovremmo condividere le parole di Wackenroder del 1797: “ ricavate , con le arti della ragione, un rigoroso sistema e volete costringere tutti gli uomini a sentire secondo i vostri precetti e le vostre regole, e voi stessi non sentite nulla. Guardando tranquillamente a tutti i tempi e a tutti i popoli procuriamo di sentire l’umano di ogni sentimento e di ogni opera sua”.
Certo la scissione tra pubblico ed addetti ai lavori nasce nell’Ottocento e si consolida con la fine del millennio. La specializzazione dovuta alla divisione del lavoro da allora ha implicato, non essendo tutti dei Leonardo, la necessità di affidare al professionista le scelte che gli competono-, ma il 3000 riuscirà a riconciliare l’uomo con la sua arte ch’è poi come dire con se stesso?
Ho cominciato dicendo che il terzo millennio forse ci vede abbastanza lontani da quel secolo da consentirci un giudizio sereno. Forse non è ancora così e l’Ottocento ci spaventa e ci inorridisce perché in esso potremmo vedere noi stessi come siamo, se come Dorian Gray non avessimo firmato anche noi un patto con il progresso per esorcizzare quelle stesse paure, che dall’Ottocento ci perseguitano.