Restauro della Croce del Tacca
Fonte: Autori vari
Restaurato il Crocefisso in cartapesta di Santa Maria a Settignano.
Dentro una mano, i frammenti di un manoscritto. opera di Pietro Tacca.
I risultati non erano così scontati. Quando avvicinandosi il Giubileo, il parroco e la comunità di Santa Maria a Settignano manifestarono il desiderio di recuperare il Crocifisso in cartapesta che fino a qualche anno prima era collocato sull’altar maggiore, l’opera era così malridotta e mortificata dai restauri ottocenteschi, che solo l’interesse sollevato dalla documentazione riapparsa negli archivi della Curia e la devozione dei fedeli potevano essere di stimolo per intraprendere un restauro che si presentava costoso, complesso per la delicatezza della cartapesta, e infine incerto negli esiti.
Ma dagli archivi si apprendeva che “all’Altar grande” si trovava “un Crocifisso al naturale di carta pesta sopra una Croce di Abeto di mano del signor Pietro Tacca” e questa paternità bastò ad alimentare il sogno di poter riscoprire sotto quelle superfici dissestate almeno l’aspetto e la cromia che l’opera poteva aver conservato nell’Ottocento, epoca in cui il Crocifisso fu restaurato e ridipinto.
Il Restauro
Un intervento delicato eseguito con passione e competenza da Andrea Granchi, diretto da Beatrice Paolozzi Strozzi della Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici e promosso dall’infaticabile Francesca Baldry Becattini, ha trasformato il sogno in realtà e i sorprendenti risultati sono stati il tema di una recente mostra presso la Cappella della Misericordia di Settignano.
Sorprendenti perché fin dai primi saggi è emerso che sotto gli strati di colore aggiuntivo riappariva la cromia originale, sufficientemente ben conservata e volta a caratterizzare in senso drammatico la figura del Cristo, con copiosi sanguinamenti che la ridipintura ottocentesca aveva in parte “censurato”; anche l’alta croce lignea dal quale il Crocifisso in leggera cartapesta veniva distaccato in occasione delle processioni, ha mostrato di essere dipinta imitando le venature del legno, con l’aggiunta di un bordo in oro zecchino. Una curiosità: all’interno della mano sinistra sono stati rinvenuti frammenti di un manoscritto, tuttora allo studio, e tra le parole si riconosce il nome “Duca Cosmo”, evidentemente riferito a Cosimo II° de Medici, granduca dal 1609 al 1621.
Quanto alla datazione dell’opera si pensa agli anni tra il 1615 e il 1627 (data quest’ultima relativa alla prima menzione negli archivi del Crocifisso).
In quel lasso di tempo Pietro Tacca (1577-1640) realizzò una serie di Crocifissi in bronzo, stucco o cartapesta, che paiono rifarsi ad uno stesso modello e su questa traccia continuò pure suo figlio Ferdinando: nella Cappella della Santa Forma dell’Escorial di Madrid, alla National Gallery di New York, al Monastero di Santa Maria Maddalena de Pazzi di Careggi a Firenze, al Santuario di Monte Senario, nel Duomo di Pietrasanta e in quello di Prato si trovano appunto Crocifissi del Tacca o realizzati sul suo modello dal figlio, che offrono tali analogie stilistiche che per realizzare una protesi per le dita una mano mancanti alla scultura di Settignano, si è pensato di realizzare un calco della mano del Crocifisso di Pietrasanta.
Il parroco della chiesa di Santa Maria, don Giorgio Tarocchi, ora che è terminato anche il restauro della croce di sostegno, ha già previsto di ricollocare il Crocifisso del Tacca sopra l’altar maggiore, per il quale era stato probabilmente realizzato.”Fede e bellezza” scriveva Tommaseo, il cui monumento troneggia proprio accanto alla chiesa, nella bella piazza di Settignano Corocifisso in cartapesta attribuito a Pietro Tacca
Breve Biografia
Pietro Tacca (Carrara, 1577 – Firenze, 1640) è stato uno scultore italiano, il maggior rappresentante in Toscana del gusto barocco.
A soli quindici anni entrò nella bottega del Giambologna (1592), lo scultore più importante dell’epoca a Firenze, del quale divenne il primo aiutante dopo la partenza di Pietro Francavilla per Parigi nel 1601. Alla morte del maestro (1608), ebbe in usufrutto lo studio e l’abitazione in borgo Pinti e solo un anno dopo prese il suo posto come scultore granducale.
Tra il 1623 e il 1626 eseguì quello che viene considerato il suo capolavoro, i Quattro mori incatenati alla base del monumento a Ferdinando I de Medici nella piazzetta della darsena a Livorno. Le statue rappresentano i pirati saraceni fatti prigionieri dall’Ordine di Santo Stefano, creato dal padre di Ferdinando, Cosimo I. Si dice che lo scultore avesse scelto come modelli alcuni schiavi prigionieri delle galere che attraccavano nel vicino porto di Livorno. Le accentuate torsioni (mutuate dallo stile di Giambologna) e le smorfie di dolore ben rappresentano la condizione di prigionia dei soggetti, che si sublima in un insieme di grande realismo ed eleganza.
Sempre per Firenze, copiando un marmo ellenistico oggi conservato agli Uffizi, realizzò la celebre Fontana del Porcellino (1630) che andò a decorare la recentemente costruita Loggia del Mercato Nuovo. La scultura è attualmente sostituita da una copia. Tra il 1626 e il 1642 realizzò le statue dei granduchi Ferdinando I e Cosimo II per i rispettivi cenotafi nelle Cappelle Medicee.
Ormai famosissimo per le sue opere in bronzo, realizzò numerosi bronzetti e una serie di Crocifissi per varie chiese, ai quali collaborò anche il figlio Ferdinando, anch’egli votato alla carriera di scultore.
La sua ultima e travagliata impresa fu il grandioso monumento equestre a Filippo IV di Spagna, al quale lavorò dal 1634 fino alla morte nel 1640. Questo monumento è la prima statua equestre con il cavallo impennato sulle zampe posteriore: a prescindere dal vivido modellato e la fiera posizione del sovrano con in mano il bastone del comando, colpisce l’incredibile risultato statico, che nessuno scultore aveva mai tentato fino ad allora.
Morì nel 1640, poco dopo che la statua di Filippo IV (dall’Ottocento in plaza de Oriente) era stata imbarcata per Madrid, e fu sepolto nella basilica della Santissima Annunziata.
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